I risultati del primo turno sembravano aver ampiamente ridimensionato il fenomeno Milei, superato nelle preferenze dal candidato che più di tutti gli altri rappresentava la continuità rispetto al presidente uscente, Alberto Fernández. Al ballottaggio, però, il rappresentante galassia peronista e kirchnerista della Unión por la Patria, Sergio Massa, non ha saputo reggere l’onda d’urto: ancor prima delle proiezioni ufficiali, ha chiamato l’ormai ex conduttore radiofonico per concedere la vittoria, spiegando poi poco dopo come Javier Milei fosse il capo di Stato che gli argentini hanno scelto per i prossimi quattro anni.
Ed è proprio così: l’eccentrico leader de La Libertad Avanza, accrocco di formazioni di destra ed estrema destra accomunate da un’adesione al libertarismo più sfrenato in economia, ha ottenuto oltre undici punti di vantaggio su Massa. Un successo messo in dubbio soltanto dal temporaneo sorpasso avvenuto un paio di settimane fa, quando alla causa di Milei sono venuti meno i voti della coalizione di centrodestra Juntos por el Cambio della candidata Patrizia Bullrich, che orte di oltre il 23%, ha poi deciso di sostenere proprio Milei.
La campagna elettorale ha raggiunto toni esasperati. Ad animarla sono state soprattutto le proposte shock dello stesso Milei sull’abolizione della banca centrale e la sostituzione del peso col dollaro, ma anche per gli attacchi feroci a papa Francesco, additato come appiglio del peronismo nonostante le numerose sferzate del pontefice ai suoi esponenti. Una strategia che, evidentemente, ha funzionato, mettendo all’angolo ciò che resta della più longeva tradizione politica argentina.
La sconfitta del peronismo diventato istituzione
Non si tratta della prima sconfitta elettorale del peronismo, che nel lungo corso di oltre mezzo secolo di storia ha imparato a incassare continuando comunque a rappresentare un’anima profonda del Paese. Del resto, l’eredità di Juan Domingo Perón, per molti argentini vero e proprio padre della patria e presidente per una decina di anni nel secondo dopoguerra, è parte integrante del patrimonio culturale nazionale.
Eppure, il peronismo di Massa, così come quello di chi lo ha accompagnato durante i mesi di campagna elettorale, dallo stesso presidente Fernández alla vice Cristina Kirchner, ha dimostrato una certa debolezza, forse dovuta alla crescente incoerenza interna allo stesso movimento.
Nato come innovatore e antisistema grazie alla gesta mitiche dei descamisados, immaginato come ideologia del popolo per eliminarne la povertà e garantirne la dignità e il lavoro, il peronismo ha perso il suo afflato primordiale nei decenni al potere, acciaccato dai numerosi casi di corruzione e diventato così istituzione più che rivoluzione. Uno scotto da pagare per chiunque raggiunga la stanza dei bottoni e per chi che ha portato più di un elettore a rivolgere altrove il proprio sguardo. Catturato, spesso, dalla retorica incendiaria di Milei, del tutto estraneo dal mondo peronista, ma forse proprio per questo premiato dal voto.
Quel paragone con Trump
Una traiettoria, quella dell’outsider che s’impone sull’establishment, che a più riprese ha chiamato in causa l’ex presidente degli Stati Uniti nonché candidato forte del Partito repubblicano americano Donald Trump. In questo caso, la bizzarra capigliatura è stata spesso l’aggancio per affiancare i due, con l’argentino – e, naturalmente, non viceversa – etichettato come il “Trump di Buenos Aires”.
Lettura semplice e immediata, che pecca non solo di boria culturale, che porta a interpretare ogni evento con le stesse lenti, ma anche di approfondimento. È senz’altro vero che Trump e Milei si somigliano, non fosse che per le proposte in campo economico o per le stesse dichiarazioni del futuro presidente argentino durante il suo discorso della vittoria, nel quale ha affermato che è finito il tempo in cui gli amici che governano si ripartiscono il bottino. Un richiamo, neppure velato, a quanto detto da Trump durante la sua inaugurazione a Washington nel 2017.
Ma Milei non rappresenta un fenomeno subordinato a quello trumpiano, né una diretta emanazione. Piuttosto, entrambi sono il prodotto di uno smarrimento dovuto agli effetti negativi della globalizzazione, che come tutti i processi complessi e duraturi, non ha mai un’unica dimensione. In Argentina, l’altra faccia dell’economia globalizzata si è spesso mostrata in tutta la sua drammaticità: motivo in più, forse, per dare a Milei una propria peculiarità.
L’Argentina di Milei
Tra una ventina di giorni, Milei farà il suo ingresso ufficiale alla Casa Rosada, residenza presidenziale argentina. Il primo passo del suo mandato che durerà sino al 2027, un nuovo capitolo della storia nazionale del Paese sudamericano.
Attualmente, l’Argentina si ritrova in condizioni economiche e finanziarie disastrose: il debito pubblico supera i 400 miliardi di dollari, mentre il tasso d’inflazione è stabile sopra la soglia del 140%. È facile immaginare che Milei proprio su questo interverrà, avendo costruito la sua intera campagna elettorale su questi temi e in contrapposizione con l’ormai ex ministro dell’Economia Massa. L’agenda sembra già delineata, con un ritorno in America latina delle ricette della deregulation e dello Stato minimo.
Quel che pare certo è che, dalla campagna elettorale alla Casa Rosada, Milei potrebbe smussare qualche angolo della sua narrazione. Già dopo un’intervista di fine ottobre, che aveva gettato più di un’ombra non tanto sul candidato, quanto sulla persona, il leader de La Libertad Avanza ha cercato di aggiustare il tiro, pur nei limiti di una retorica spesso violenta. Il governo del Paese, anche per Milei e i suoi seguaci, sarà un banco di prova.
Foto di copertina EPA/Juan Ignacio Roncoroni