Il rischio di una nuova escalation militare al confine tra Russia e Ucraina

La settimana scorsa i media internazionali hanno lanciato “breaking news” su un’imminente nuova invasione della Russia in Ucraina. L’agenzia Bloomberg, citando fonti vicine all’intelligence statunitense, ha pubblicato la notizia di circa 90 mila soldati russi concentrati al confine con l’Ucraina, e di fotografie satellitari di una concentrazione di truppe senza precedenti, con fonti informate che parlavano di un piano di attacco che dovrebbe realizzarsi nel gennaio-febbraio 2022.

L’ambasciata Usa a Kiev ha avvertito i concittadini di non recarsi nell’Est del Paese, e di tenersi pronti a eventi imprevisti che possono richiedere un espatrio urgente: in altre parole, a una guerra.

Lo scetticismo di Kiev
Curiosamente, già 24 ore dopo una notizia di tale entità era sparita dai titoli del giorno, e tre giorni dopo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non si è dilungato troppo sulla minaccia di un intervento russo, limitandosi a dichiarare che non lo considera più imminente di quanto lo fosse nell’aprile scorso, quando Mosca aveva concentrato le truppe al confine. Quella escalation si era poi scoperta una carta che il Cremlino aveva giocato in attesa di aprire un negoziato con l’amministrazione Biden, un avvertimento a non oltrepassare quelle che Vladimir Putin considera delle “linee rosse” da non superare nell’integrazione di Kiev nello spazio euro-atlantico.

Anche all’epoca Zelensky si era mostrato cautamente scettico, contrariamente alla tradizione di Kiev, dettata anche dal fatto che la sicurezza ucraina dipende, dopo l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbass nel 2014, dall’assistenza militare soprattutto americana, e dall’attenzione costante della comunità internazionale. Siamo dunque di fronte a una situazione molto insolita: in presenza di un massiccio assembramento di truppe, denunciato da fonti più che autorevoli, i probabili aggressori non insistono a negare, e le potenziali vittime sfoggiano un rassicurante scetticismo.

Una guerra non solo ibrida
Atteggiamento che potrebbe far pensare a un episodio di guerra “ibrida” prima che reale, nel qual caso molte stranezze si spiegano. La Russia ha tutto l’interesse a che il mondo si accorga dei movimenti di truppe, per fare sfoggio di muscoli e far pesare il suo ruolo nella maniera che secondo Mosca più si addice a una grande potenza, con un’intimidazione sfacciata. Zelensky, che può mancare di esperienza come politico ma sa benissimo come influenzare l’opinione pubblica, reagisce logicamente mostrando di non soccombere all’intimidazione, per non fare il gioco del suo avversario. A Washington conviene denunciare i movimenti di truppe, sia per bloccare per tempo eventuali piani di invasione russi che per ribadire a loro volte delle “red lines” su una serie di dossier non solo militari, come il North Stream 2.

Una fuga di notizie potrebbe convenire anche a fazioni interne al Cremlino, che sono al corrente delle pressioni dei “falchi” che spingono per una guerra non solo ibrida. Qualche settimana fa, l’ex presidente ed ex premier Dmitry Medvedev, ora vicesegretario del Consiglio di sicurezza russo, ha firmato un articolo sulle relazioni di Mosca con l’Ucraina che ha guadagnato poca attenzione mediatica, essenzialmente grazie a un tono che andava oltre l’offensivo nei confronti degli ucraini in generale e del presidente Zelensky in particolare. Considerato la scarsa rilevanza di Medvedev nelle costellazioni di potere del Cremlino, quasi nessuno ha preso sul serio la conclusione strategica cui giunge nel suo “articolo programmatico”: lasciare l’Ucraina in pace e non compiere mosse per riportarla nell’orbita russa.

Le aspirazioni dei “falchi” russi
Un messaggio stranamente “pacifista”, che collide con le teorizzazioni dei “falchi” e dello stesso Vladimir Putin, che ha teorizzato in un saggio di qualche mese fa che gli ucraini e i russi sono “in fondo lo stesso popolo”, e che l’Ucraina si è appropriata di terre storicamente russe. Una narrativa revanscista pericolosa, unita alla retorica – ripetuta soltanto pochi giorni fa da Nikolay Patrushev, capo del Consiglio di sicurezza, ex capo dell’Fsb e uno degli uomini più vicini al presidente russo – su un’Ucraina “protettorato dell’Occidente, che ha distrutto la sua economia, ridotto in miseria e privato di diritti la sua popolazione”.

Lo scontro sull’intervenire o meno in Ucraina dunque esiste, è vero, almeno nella retorica, e in un contesto dove l’inquilino del Cremlino si mostra sempre più spesso non soltanto il committente, ma anche il consumatore principale della propaganda, non è escluso che non sia soltanto retorica. Le basi teoriche per giustificare un’invasione russa sono già state create: un territorio sottratto alla Russia, un popolo “fratello” che soffre sotto il giogo degli occidentali, una minaccia militare presentata come sempre più diretta (Putin ha menzionato di recente il rischio di manovre e basi Nato in territorio ucraino) e un progetto neoimperialista e postsovietico che senza l’Ucraina non sarebbe fattibile.

Le basi pratiche di questo progetto vengono gettate in questi giorni nelle foreste a ovest e a nord dei confini ucraini, dove gli esperti militari hanno rilevato una concentrazione di uomini e armamenti senza precedenti. Ruslan Leviev di Conflict Intelligence Team dice a Radio Liberty che “tutto il necessario per iniziare i combattimenti c’è già”, e cita artiglieria, razzi multipli, aviazione e le truppe corazzate, una novità rispetto alle offensive precedenti. Il numero di battaglioni viene stimato come quadruplo rispetto alla guerra del 2014, quando però la Russia aveva sfondato soltanto un tratto di confine a est, mentre ora la concentrazione di truppe pare riguardare una fascia molto più larga, che fa temere ai militari ucraini che l’offensiva interesserà non soltanto il Donbass, ma anche il sud dalla Crimea e il nord dal confine con la Bielorussia.

Poker geopolitico o conflitto regionale?
Gli scettici dicono che la Russia non sarebbe in grado di invadere l’Ucraina – con 45 milioni di abitanti in stragrande maggioranza ostili a un ritorno alla Russia, e un esercito molto più preparato rispetto a sette anni fa, quando l’offensiva dei “volontari” russi nel Donbass venne bloccata. comunque non reggerebbe il prezzo politico, diplomatico, umano e militare di una guerra. Ci sono dubbi anche sul fatto che Aleksandr Lukashenko, per quanto in difficoltà, si presti a fare da piazza d’armi per le truppe russe.

Yulia Latynina sulla Novaya Gazeta ironizza dicendo che il Cremlino non lancerà mai una guerra vera: “La guerra vera si può perdere, quella ibrida mai”, afferma, propendendo per un bluff diretto agli Usa per avviare un negoziato sulle sorti dell’Ucraina. Ma c’è anche chi prende la minaccia molto sul serio, come Pavel Felgenauer, ex consigliere militare di Mikhail Gorbaciov, che si spinge fino a ipotizzare una “guerra regionale su larga scala con rischio di trasformazione in guerra europea o globale con ricorso alle atomiche”. Se fosse un poker “geopolitico”, il bluff  avrebbe dimensioni senza precedenti. Se però non fosse un bluff, sottovalutarlo sarebbe un errore tragico.

Foto di copertina EPA/PRESIDENTIAL PRESS SERVICE

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