I confini militarizzati al tempo delle migrazioni globali

Wessi è un termine colloquiale usato dagli abitanti dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) per indicare i tedeschi della parte occidentale del Paese ora unificato, la Brd. I Wessi, o occidentali della Germania, chiamano a loro volta gli abitanti della Germania orientale Ossi, o orientali. 

La polarità Wessi-Ossi della Germania contemporanea è indicativa di una questione più ampia che riguarda la nostra attuale comprensione dei confini e delle identità ad essi associate come realtà statiche e inevitabili piuttosto che come prodotti di decisioni politiche e circostanze storiche. Il dibattito sui confini politici, a partire dalla Pace di Westfalia del 1648 e dai successivi Stati nazionali da essa concepiti, è stato condotto principalmente attraverso una lente militare, ignorando così, apparentemente, la realtà quotidiana delle persone che hanno vissuto a contatto con essi.

La militarizzazione dei confini 

Vedere i confini apparentemente in termini militari può spiegare in parte la retorica emersa alla vigilia della crisi europea dei migranti del 2015 e i successivi appelli a “riprendere il controllo” dei nostri confini. Ciò che rivela questo linguaggio, utilizzato sia dagli opinionisti dei talk show che dai troll di Internet, è che per molti europei l’improvviso afflusso di milioni di rifugiati, richiedenti asilo e migranti economici non è stato una risposta razionale a un’emergenza umanitaria, ma un fallimento tangibile delle frontiere nazionali, che sono state successivamente incolpate di non aver fatto il loro lavoro, “proteggere” il loro Paese.

Attribuire il fallimento della politica estera e degli aiuti umanitari dei governi europei di fronte ai conflitti che hanno provocato la crisi dei rifugiati del 2015 a un fallimento dei confini nazionali è il linguaggio dei leader militari e dei tattici che devono considerare i confini come entità inviolabili, non come comunità civili che possono essere separate da nient’altro che una linea tracciata sulla sabbia. 

La minaccia percepita – e non reale – dei rifugiati

La visione militarizzata dei confini vale anche per la risposta delle società alla crisi dei rifugiati, che ha portato alla creazione di una retorica sempre più aggressiva, che ha contribuito alla de-umanizzazione delle persone che cercavano rifugio dai conflitti attraversando linee tracciate dalle nazioni, attraversando linee di potere di cui né loro né le persone in fuga avevano il controllo. L’Ue, nel corso della sua storia, ha tentato di negare il potere dei confini, rafforzando al contrario il potere dell’altro, estraneo nell’immaginario collettivo delle comunità, che possono trovarsi di fronte a sentimenti striscianti di dubbio, disagio e persino odio nel momento in cui assistono allo smantellamento dei confini con cui si sono precedentemente identificate.

I confini nazionali e le nazioni che essi definiscono, continuano a rappresentare un rifugio per coloro che considerano una minaccia alla propria identità un mondo sempre più globalizzato in cui le identità, le lingue e le culture nazionali sono sempre più respinte a favore di altri identificatori socioculturali. La domanda “da dove vieni” può quindi diventare infinitamente più complessa in un mondo in cui gli individui, compreso l’autore di questo articolo, possiedono diversi passaporti, parlano diverse lingue e hanno vissuto e lavorato in una miriade di luoghi. 

“Perché sei qui?”

I discendenti di immigrati che vivono all’interno di uno spazio bianco maggioritario, ai quali viene rivolta la domanda “da dove vieni?”, si trovano inoltre ad affrontare una serie di sfide diverse, poiché la domanda allude inavvertitamente a una domanda molto più intima: “Perché sei qui?”, che suggerisce di essere, per la vicinanza a una minoranza di provenienza, fede o eredità, uno straniero che deve giustificare la propria presenza all’interno dei confini della società maggioritaria. Le linee tracciate dagli europei bianchi sulle mappe restano linee di potere e la possibilità di scegliere da che parte stare comporta un privilegio che pochi europei devono affrontare.

Nel caso degli abitanti di Berlino, una linea di confine ha separato con la forza un Paese e un popolo, eppure la cortina di ferro rimane parte integrante dell’identità tedesca, plasmando i modi in cui le comunità vedono se stesse e con cui costruiscono l’onnipotente altro. La tanto declamata “Fine della Storia” di Fukuyama (Mueller, Did History End? Assessing the Fukuyama Thesis, 2014) ha propagandato un futuro post-ideologico in cui il progresso socio-economico e l’innovazione tecnologica avrebbero rinvigorito il mondo per eliminare le linee tracciate sulle carte geografiche a favore di una nuova identità globale, fedele agli ideali occidentali di individualismo senza il presunto peso di un’identità o di una memoria collettiva. Eppure, è proprio questa memoria collettiva che probabilmente costituisce una testimonianza del potere duraturo dei confini nazionali, come si vede a Berlino, una città in cui le linee sono sbiadite, ma che rimangono una realtà sempre presente nella vita di molti grazie al potere della memoria collettiva. 

 width=Il PremioIAI è stato realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ai sensi dell’art. 23- bis del DPR 18/1967

Le posizioni contenute nel presente report sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

L’autore è uno dei finalisti del Premio IAI “Giovani talenti per l’Italia, l’Europa e il mondo”. I loro saggi,sul tema “I confini in un mondo interconnesso” saranno pubblicati nelle collane editoriali dello IAI. I primi tre classificati avranno l’opportunità di discutere le proprie idee in un evento con personalità del mondo politico, culturale, scientifico, che si svolgerà a novembre.

Foto di copertina EPA/CLEMENS BILAN

 

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