Il cronista e la “Grande Storia”

In Ucraina si vive da tempo dentro una grande guerra di logoramento. Il popolo ucraino che festeggia con le bandiere giallo-blu, finalmente libero, per le strade di Kherson è l’ultimo grande evento – umano e militare – a cui noi cronisti abbiamo assistito, prima della caduta di Bakhmut. Era novembre 2022. Kherson –  la prima e unica grande città conquistata da Putin, al centro del suo progetto di Novorossiya – era stata liberata dall’esercito di Kyiv dopo nove mesi di occupazione russa. Davanti a noi non c’erano cittadini felici del “nuovo governo”, come sosteneva la propaganda del Cremlino, ma un popolo di uomini, donne e bambini che correva incontro agli uomini del generale Zaluzhnyi. I russi, prima di andarsene, avevano fatto saltare il ponte Antonovsky, l’antenna della televisione e la centrale elettrica: “Qui non c’è luce, non c’è gas, non c’è nulla, ma preferiamo vivere così, nella nostra amata Ucraina!”, mi ha urlato, tra le lacrime, una giovane ragazza bionda dall’inglese perfetto, sotto i cartelloni pubblicitari: ‘russi e ucraini sono un unico popolo’, ‘Kherson è russa per sempre’.

All’improvviso, un soldato è corso verso di noi, con le mani sul kalashnikov. Per un istante, ho temuto che ci volesse arrestare perché stavamo violando il coprifuoco. Ma è un attimo soltanto. Buttati a terra fucile ed elmetto, si inginocchia e inizia a battere il palmo della mano, piangendo sempre più forte. La terra trema. I colpi scandiscono uno, due, tre, nove mesi di guerra. C’è la rabbia. C’è il dolore. Ci sono tutti i compagni morti, in quei battiti. Appoggia la fronte davanti a sé e dice: “Sono a casa”. Ha quarantacinque anni, è un comandante delle Forze Speciali e per nove mesi ha dovuto combattere contro i russi che hanno invaso (e che credeva fratelli) e contro gli ucraini che hanno tradito.

La prospettiva del cronista: illuminare le periferie dell’informazione

Quel giorno, ancora una volta, mi è stato chiaro il senso del nostro mestiere: quello di inviato di guerra. È vero, come dicono gli analisti, che “da lontano” i conflitti si capiscono meglio – in virtù della distanza critica, della visione d’insieme, dell’analisi razionale della cornice dentro cui si muovono le grandi potenze –, ma è altrettanto vero che solo “da vicino”, con gli stivali nel terreno – cioè solo riempiendo quella cornice dell’umanità che la abita  – si può comprendere la volontà di un popolo. Se non fossimo stati presenti in Ucraina quando Vladimir Putin ha dato ordine di invaderla, non avremmo colto il desiderio di libertà e indipendenza che anima il suo popolo. In ventiquattr’ore abbiamo visto cittadini comuni – medici, insegnanti, studenti, baby-sitter – precipitarsi ai centri di raccolta e arruolarsi, trasformare le città in trincee con montagne di pneumatici, raccogliersi in piazza coi bambini in braccio a costruire molotov per la resistenza. Una reazione che ha colto di sorpresa anche i generali di Mosca, convinti che sarebbero stati accolti tra i fiori, come liberatori. Una reazione che avrebbe determinato il futuro del conflitto. A tre settimane dall’invasione, mentre gli esperti dai talk-show preconizzavano la caduta di Kyiv entro un mese, davanti agli occhi degli inviati sfilavano i carri armati di Putin, senza benzina, trainati dai trattori dei contadini ucraini. In quell’immagine c’era tutto il fallimento logistico e militare del Cremlino. Una settimana dopo l’esercito di Vladimir Putin si sarebbe ritirato dalle periferie della capitale. La realtà aveva superato nettamente le analisi.

“Vado al cimitero dove stanno seppellendo gli elicotteristi [si trattava dei caduti della guerra in Afghanistan]. I discorsi dei Generali… La banda musicale… E a scompigliare quel complotto di adulti, la vocetta di una piccola bimba che, pur esile, riesce di nuovo e di nuovo a farsi udire tra gli altri suoni: ‘papà, paparino, mi avevi promesso di tornare…’. Disturba la cerimonia. L’allontanano dalla bara come un cagnolino irrequieto e la portano via. E ho capito che fra tutta quella gente raccolta attorno alla sepoltura, l’unica persona normale era proprio lei”, scrive Svetlana Aleksievič in La guerra non ha volto di donna. Squarcia con un’immagine la cortina delle verità ufficiali, ci costringe a guardare la realtà della guerra oltre le dichiarazioni della propaganda che narra solo di vittorie e di condottieri eroi che uccidono altri uomini. Interessata ai “piccoli fatti veri di persone qualsiasi”, lei –giornalista, poi Nobel per la Letteratura proprio per la capacità di raccontare, con quel suo romanzo di voci, la storia di un popolo – mostra come l’insieme delle testimonianze dei singoli individui comuni fanno la Grande Storia. Restituisce un popolo fin lì senza voce, portatore di verità che sovvertono la propaganda.

Ho pensato spesso a quel suo modo di raccontare, nel corso di questi due anni che abbiamo passato tra trincee, camere mortuarie, ospedali al fronte e città sotto assedio. “L’uomo è più grande della guerra”, scrive Svetlana Aleksievič, squarciando in un lampo ciò che cerca un cronista (anche) quando si trova dentro il campo di battaglia. Le dottoresse di Kyiv che lasciano gli ospedali per andare a curare i feriti al fronte, l’agricoltore che resta accanto ai campi minati perché non può abbandonare le sue bestie, il meccanico diventato all’improvviso soldato che dorme da mesi a meno 20 gradi nelle trincee, i bambini ucraini tornati a casa dopo essere stati rapiti dai russi, i cui racconti sono alla base del mandato di arresto internazionale per Putin e la commissaria Lvova-Belova: anche loro – questi invisibili – sono i protagonisti della ‘Grande Storia’ che si scriverà. Compito del cronista è dar loro voce, illuminare quelle periferie dell’informazione.

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