Il complesso allargamento europeo verso i Balcani

L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto l’Unione Europea ad agire in diversi ambiti: da una maggior diversificazione dell’approvvigionamento energetico alla definizione di un massiccio piano di investimenti in difesa. Nel contempo, le mire espansionistiche di Putin — unite ai tentativi della Cina di espandere la sua sfera di influenza — hanno riportato in primo piano il tema dell’allargamento dell’UE, in particolare verso i Paesi dei Balcani occidentali. L’apertura di Bruxelles verso queste nazioni, da tempo candidate a divenire parte dell’UE, continua però a palesare degli elementi critici che, allo stato attuale, rendono ardua un’accelerazione del loro processo di integrazione nell’Unione.

Queste problematiche, in larga parte, sono legate alla situazione politico-istituzionale dell’area, che si è fatta negli ultimi anni più complessa, con massicce proteste di piazza, aspri scontri tra poteri dello Stato e rinnovate tensioni tra diverse etnie. In questo contesto appare particolarmente problematica la situazione della Bosnia-Erzegovina, Paese che continua a vivere sulla base del precario equilibrio stabilito dagli Accordi di Dayton del 1995. Qui, da anni, i vertici della Repubblica Srpska contestano l’ordine costituzionale definito su base internazionale e portano avanti un’agenda indirizzata a separare la componente serbo-bosniaca dal resto del Paese. Gli atti di aperta sfida all’assetto costituzionale sono stati negli ultimi mesi di tale gravità  da indurre la magistratura di Sarajevo a spiccare un (finora inefficace) mandato d’arresto nei confronti dei leader della Repubblica Srpska: il Presidente Dodik, il Primo Ministro Viskovic e il Presidente del Parlamento, Nenad Stevandic. Una secessione appare improbabile — vista anche la condanna delle azioni dell’esecutivo della Repubblica Srpska da parte dell’amministrazione Trump — ma una Bosnia ancora frammentata e dalla sovranità limitata  non ha dinanzi a sé una prospettiva di accesso all’Unione Europea in tempi brevi. Particolare attenzione merita anche la situazione della Serbia. Sotto la presidenza di Aleksandar Vučić, Belgrado ha mantenuto solide relazioni con la Russia e non ha compiuto passi significativi verso un autentico sistema liberaldemocratico capace di garantire la tutela dei diritti fondamentali della persona e dello stato di diritto. Le ampie proteste degli ultimi mesi a seguito del crollo di una pensilina nella stazione ferroviaria di Novi Sad — incidente che ha causato la morte di 15 persone e che è stato visto come emblematico del malfunzionamento dell’amministrazione pubblica — hanno aperto una frattura senza precedenti nel rapporto tra il leader del Partito Progressista Serbo e la cittadinanza. Tuttavia, assumere che questo possa aprire la strada a un più stretto legame tra Belgrado e Bruxelles appare, al momento, eccessivamente ottimistico.

Anche dal lato dell’Unione Europea ci sono però elementi che non facilitano l’avvicinamento alla regione balcanica. In primo luogo, i 27 Paesi membri — che devono deliberare all’unanimità  l’accesso di uno Stato nell’UE e poi ratificarlo a livello nazionale — attribuiscono diversi gradi di rilevanza all’integrazione dell’area: alcuni, come Germania e Paesi Bassi,  spingono verso un rapido percorso di integrazione, altri, come Bulgaria e Grecia, frenano, anche per dispute storiche. In secondo luogo, sussistono legittime preoccupazioni in merito al funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi decisionali euro-unitari. Un ingresso accelerato di questi Paesi nell’UE al fine di includerli rapidamente nella sfera di influenza comunitaria aumenterebbe infatti il rischio di portare all’interno della casa europea degli Stati istituzionalmente fragili (come avvenuto nel caso di altre nazioni dell’est) che, su dossier fondamentali, potrebbero ad esempio esercitare un deleterio potere di veto, vista la perdurante esistenza su molte materie del requisito dell’unanimità.

Alcuni Stati della regione, come Albania e Montenegro — già membri della NATO e politicamente più stabili rispetto a quelli sopra menzionati — potrebbero anche nel breve-medio periodo riuscire ad accedere all’UE ma, per altri, questa strada sembra, almeno per il momento, difficilmente percorribile. Ecco, dunque, che sui Balcani occidentali, come su altre aree, torna inevitabilmente in rilievo il dibattito su altri modi con cui l’Unione Europea potrebbe cercare di allargare la propria sfera di influenza. È l’ingresso nella (attuale) UE l’opzione più valida per perseguire questo obiettivo?

La proposta di dar vita a un’Europa a cerchi concentrici, caratterizzata da diversi livelli di integrazione, potrebbe rappresentare una valida soluzione alternativa: in quest’ottica, gli Stati più istituzionalmente (ed economicamente) “avanzati” potrebbero procedere con un’integrazione sempre più federale, mentre gli altri, almeno temporaneamente, sarebbero coinvolti in una cornice istituzionale più affine al modello confederale. Questa possibile riforma del progetto di integrazione europea  — sostenuta, fra gli altri, dal presidente francese Emmanuel Macron — stenta però a decollare e, per ora, neppure l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a darle una particolare spinta propulsiva. Chissà se la nuova leadership tedesca, unita a un rinnovato asse Parigi-Berlino, riuscianno però a mettere (finalmente) la questione sul tavolo delle cancellerie europee.

L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza

Ricercatore nel programma “Multilateralismo e governance globale” dell’Istituto Affari Internazionali. La sua attività di ricerca ha primariamente riguardato il quadro di governance economica dell’Unione Europea, il tema delle criptovalute e quello delle monete digitali delle banche centrali.

Ultime pubblicazioni