Haiti nella spirale delle crisi umanitarie irrisolte

Tra le più gravi crisi umanitarie del nuovo millennio quella di Haiti è spesso dimenticata. Negli ultimi anni, il Paese sta vivendo un crollo umanitario – e di conseguenza socio-economico, politico – che ha raggiunto livelli allarmanti. La metà della popolazione del Paese caraibico, che conta poco più di 11 milioni di abitanti, è in stato di insicurezza alimentare e nelle zone rurali migliaia di persone soffrono la fame e muoiono di colera.

La violenza delle bande armate

La situazione politica resta critica. Dopo l’assassinio del Presidente Jovenel Moïse nel 2021, il primo ministro Ariel Henry ha assunto l’incarico de facto, ma a gennaio di quest’anno Haiti ha perso l’ultima traccia di rappresentanza democratica quando è scaduto il mandato dei suoi senatori. Il primo ministro, non eletto democraticamente e fortemente criticato dalla popolazione, ha creato così un consiglio costituito da tre persone che rappresentano la società civile, i partiti politici e il settore privato, che detiene il compito di rendere il Paese abbastanza sicuro da poter svolgere elezioni democratiche, riformare la costituzione e attuare riforme economiche.

Questi avvenimenti si sono susseguiti in un clima di grande violenza. Haiti, infatti, conta circa 200 bande armate, che controllano ampie parti del territorio, responsabili dell’isolamento di  interi quartieri e della carenza di collegamenti con la capitale Port-au-Prince.

La Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) da anni sta monitorando la situazione di Haiti, e dal 2018 ha osservato una forte crescita degli scontri tra i gruppi rivali che lottano per il controllo del territorio. Secondo i report, tra il 2018 e il 2021, c’è stato un aumento del 113% degli omicidi e del 1.236% dei sequestri, passati da 49 a 655 all’anno. Alla crisi economica e politica, inoltre, si aggiungono le conseguenze della pandemia di COVID-19 e i disastri naturali, come il terremoto di magnitudo 7.2 nell’ agosto del 2021 e la tempesta tropicale Grace nello stesso anno. In un tale contesto, si sono inoltre acuiti i soprusi contro i giornalisti e, più in generale, si registrano sempre più violazioni della libertà di espressione.

In questo contesto, il 29 febbraio 2019 la CIDH ha annunciato la creazione di una Sala di coordinamento e risposta tempestiva (SACROI) per monitorare la situazione dei diritti umani ad Haiti. La CIDH ha quindi seguito e sviluppato una strategia specifica per il Paese e ha cercato di rafforzare il dialogo con le agenzie delle Nazioni Unite sul campo e con gli attori locali, gli organi nazionali per i diritti umani e la società civile nel paese.

Il fallimento delle Missioni Onu

Nel 2004, invece, l’Onu ha avviato una missione di pace per stabilizzare il Paese, chiamata MINUSTAH. Le forze di pace, note anche come caschi blu, hanno avuto un ruolo centrale nel processo di ricostituzione dell’ordine ad Haiti attraverso operazioni anticrimine e fornendo personale quando necessario, soprattutto durante le elezioni a livello nazionale e durante i lavori di ripristino a seguito di  disastri ambientali. La MINUSTAH ha operato ad Haiti fino al 2017, quando è stata lentamente ritirata per fare spazio alla nuova missione di supporto alla giustizia, la MINUJUSTH. Il mandato di quest’ultima si è concluso nell’ottobre 2019, e la missione è stata sostituita dall’ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti (BINUH), istituito con la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e tuttora attivo.

Nonostante le intenzioni e l’impegno, le Missioni non hanno raggiunto gli obiettivi prestabiliti. Secondo diverse analisi, infatti, nel corso di quasi vent’anni di intervento dell’Onu, la situazione non solo non è migliorata, ma in alcuni casi ha subito un peggioramento. Ad esempio, nel 2016 si è scoperto che l’epidemia di colera, iniziata nell’ottobre del 2010, provocando oltre 10 mila decessi, si era originata proprio in un campo delle forze di pace dell’Onu.

Inoltre, secondo numerose fonti, i caschi blu hanno consapevolmente approfittato di giovani haitiani in condizioni svantaggiate, abusato sessualmente di loro durante le missioni e violato i diritti umani della popolazione. Nonostante questo, nessuno del personale delle Nazioni Unite è stato perseguito per un crimine sessuale durante una missione di pace. In uno studio, il 19,6% degli intervistati ha dichiarato di aver ricevuto minacce di morte dai peacekeeper e ciò ha creato un clima di sfiducia e dissenso nei confronti dell’organizzazione.

La missione in Haiti, comunque, non è l’unica a non aver avuto il successo sperato. I due casi più fallimentari, infatti, sono quelli delle missioni in Rwanda e in Somalia. Nel primo caso, un’inchiesta del 1999 non solo ha rilevato che l’Onu ha ignorato le prove che dimostravano che il genocidio in Rwanda fosse stato pianificato, ma ha anche portato alla luce un episodio piuttosto serio, in cui le forze di pace avrebbero abbandonato una scuola dove i tutsi — l’etnia vittima dello sterminio — si stavano rifugiando, e dove poi vennero massacrati. Il caso della Somalia rappresenta un altro grande insuccesso. Le forze di pace, infatti, hanno riscontrato grosse difficoltà nella capitale Mogadiscio, dove 157 peacekeeper sono stati uccisi tanto che nel 1995 l’Onu ha dovuto ritirare tutte le truppe di pace.

Le criticità del sistema di assistenza internazionale

Oltre alle Nazioni Unite, oggi ad Haiti operano svariate organizzazioni internazionali che tentano di migliorare la situazione, con esiti eterogenei, non sempre fruttuosi.

La causa dei fallimenti è da ricercare nelle problematiche strutturali del sistema di assistenza umanitaria internazionale. In primo luogo, risalta la mancanza di trasparenza nell’allocazione dei fondi delle organizzazioni e delle donazioni internazionali. Molti haitiani, infatti, si chiedono dove finiscano i miliardi di dollari che vengono donati dalla comunità internazionale.

Inoltre, spesso i fondi e gli sforzi di soccorso non sono coordinati correttamente e le istituzioni del Paese beneficiario non vengono coinvolte nelle decisioni e/o nell’amministrazione delle risorse economiche, come nel caso del terremoto del 2010 ad Haiti. Infine, un’altra importante problematica che si collega a quanto detto sopra, è quella che viene definita “trappola umanitaria”, per indicare la tendenza da parte delle organizzazioni internazionali a fornire assistenza senza che questa venga accompagnata da una strategia orientata allo sviluppo e alla risoluzione della situazione.

Così, la mancanza di trasparenza, l’esclusione delle organizzazioni locali e la scarsa autonomia delle istituzioni locali nella gestione delle emergenza, come nel caso di Haiti, causano una totale dipendenza della popolazione locale dagli aiuti umanitari.

Questo articolo, a cura di Maddalena Fabbi, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo

Foto di copertina EPA/Johnson Sabin

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