L’occidente, l’Ucraina e il ‘fattore psicologico’ della guerra

Cosa minaccia la magnifica unità degli europei sulla guerra in Ucraina? Probabilmente non la propaganda e la disinformazione russa, non il pacifismo diffuso nella società europea, nemmeno le conseguenze economiche. Ogni nuova prova della barbarie russa sul terreno è sufficiente a rinfocolare l’indignazione. Ci potrebbe invece essere un pericolo di tenuta psicologica. Mi sia concessa una citazione, per definizione politicamente scorretta, di Joseph De Maistre: “le guerre non si vincono o si perdono soprattutto con le armi, ma con la testa”.

L’effetto psicologico delle guerre 

I nostri governi sono tenuti a trasmettere due messaggi non necessariamente conciliabili nella testa della gente. “Non siamo in guerra“, ma anche “questa guerra ci riguarda da vicino e quindi dobbiamo sostenere l’Ucraina“. Il problema è che il rapporto degli europei con la guerra dopo due conflitti mondiali che rappresentarono un quasi riuscito tentativo di suicidio collettivo, non ha precedenti nella storia. Il risultato è stata l’integrazione europea sulla base di un modello kantiano e un forte sentimento pacifista diffuso in tutta la popolazione. Pacifismo facilitato dall’aver largamente delegato agli Usa la nostra difesa. Certo, c’è stata la guerra fredda; ma appunto era fredda, nel senso che avevamo paura di ciò che sarebbe potuto succedere, non di ciò che succedeva.

Gli Usa hanno invece avuto la Corea, il Vietnam, poi l’Iraq e l’Afghanistan; sempre con numerosi morti americani. Sono stati conflitti che hanno riguardato anche l’Europa, ma in modo marginale e comunque con un contenuto emotivo limitato. Lo stesso si può dire delle guerre nella ex Jugoslavia, con l’eccezione di alcuni episodi: la strage di Sebrenica, certi momenti dell’assedio di Sarajevo. L’eccezione furono l’Indocina e l’Algeria, ma solo per quanto riguarda la Francia. Ma anche per quei conflitti sono ormai passati 60 anni; le ferite che restano non sono legate ai combattimenti, ma sono etniche, politiche e sociali.

L’Europa e la “Sindrome Csi”

In Ucraina invece ci troviamo alle prese con un conflitto che ha caratteristiche eccezionali: non ci coinvolge materialmente a parte l’impatto sull’economia, ma ha un fortissimo impatto emotivo. La domanda che dobbiamo porci è quindi: come si comporta la nostra emotività di fronte a un conflitto di questo tipo? Tenendo tra l’altro conto del fatto che all’Europa non sono state risparmiate solo le guerre ma anche, anche la violenza endemica che caratterizza gli Stati Uniti. È tra l’altro interessante notare che anche le periodiche ondate di terrorismo interno e esterno, tendono a scomparire dalla cima della lista delle principali preoccupazioni dei cittadini poco dopo il termine della fase acuta.

Per cercare di meglio comprendere come funziona la testa dei nostri concittadini, possiamo forse trovare aiuto in un fenomeno che ha fortemente influenzato il posto che i conflitti e la violenza occupano nella nostra immaginazione e nelle nostre emozioni di pacifici europei: la fiction cinematografica e di recente soprattutto televisiva. Il riferimento è a quella che gli studiosi del fenomeno chiamano “la sindrome Csi“, dalla popolare serie investigativa americana. Il nostro immaginario collettivo è infatti stato abituato dalle fiction e dai film di cui siamo grandi consumatori ad aspettarsi che ogni fenomeno violento, anche il più intricato e drammatico, debba essere risolto senza dubbi e ambiguità nel giro di un’ora, anzi 50 minuti contando la pubblicità; al massimo di qualche ora, o di qualche episodio.

L’impatto psicologico è così radicato da costringere i veri responsabili delle polizie scientifiche ingiustamente accusati di inefficienza, a spiegare che la realtà è molto diversa dalla finzione, che le inchieste serie possono durare mesi e che non conducono necessariamente a conclusioni certe. Le guerre vere sono trattate allo steso modo. Le battaglie decisive delle due ultime guerre mondiali (Verdun, la Marna, el-Alamein, Guadalcanal, Stalingrado) che nella realtà durarono mesi, nella nostra immaginazione cinematografico-televisiva si concludono nel giro di due ore o poco più. Dimenticando peraltro che dopo queste svolte decisive la guerra vera durò ancora anni.

Persino in una serie dal respiro ampio come “Game of Thrones”, le battaglie decisive durano meno di una puntata. Quale che sia la potenza delle immagini, questo modo di raccontare la guerra ne cancella i due aspetti più tragici ma più importanti: la durata e l’imprevedibilità. Per le generazioni, ormai quasi tutte, che non hanno mai conosciuto la guerra vera, quella che ci viene proposta è quindi l’unica che riusciamo a immaginare; salvo (ma chi lo fa più?) immergerci nei grandi affreschi che vanno al ritmo della realtà come Guerra e Pace.

Guerra, informazione e immaginario collettivo

Cosa possiamo aspettarci da un’opinione pubblica il cui immaginario è stato educato in questo modo, di fronte a una guerra in cui è coinvolta emotivamente ma non materialmente? I media contribuiscono a complicare le cose. L’ansia per la guerra vera e quella per le guerre finte ci vengono servite quasi contemporaneamente sullo stesso schermo. Certo, i corrispondenti di guerra in Ucraina fanno quasi tutti bene il loro mestiere e raccontano gli avvenimenti nella loro contraddittoria e lenta incertezza. Tuttavia il ritmo frenetico dell’informazione, la bulimia di novità e spiegazioni che confermino ciò che pensiamo, inserisce in ciò che poi arriva sui nostri schermi un bisogno di accelerazione che non corrisponde ai fatti sul terreno.

Ogni giorno, al racconto degli avvenimenti deve accompagnarsi una previsione definitiva. Ieri una località contesa era persa, oggi invece è salva. Il successo dei missili russi di ieri indica che Putin ha il sopravvento; l’efficacia della contraerea ucraina di oggi è invece la prova che Zelensky si avvia a liberare la Crimea. Il risultato è che ogni cambio di scenario ne aumenta l’impatto ansiogeno. Senza contare che questa altalena dura da un anno. Alcuni canali d’informazione si sforzano di interrogare esperti seri; i quali però devono fare acrobazie verbali per restare ancorati ai fatti e al buon senso e per resistere alla domanda pressante: chi vincerà e, stabilito questo, quando? Il passo successivo è di essere tentati di volere a ogni costo il finale; magari anche se il prezzo da pagare è che i cattivi non riceveranno la giusta punizione.

Il vero tempo della guerra

Non è affatto detto che questo sia uno scenario probabile. Per il momento i nervi degli europei sembrano tenere, ma Putin può considerarlo plausibile e dedurne che il tempo lavora per lui. Non il tempo lungo. Quello non può essere amico di un Paese come la Russia che ha dalla sua solo un immenso territorio e molte materie prime, ma che è azzoppato dalle sanzioni, dal calo demografico, da un’opinione pubblica per ora acquiescente ma irrequieta, dalla fuga dei migliori cervelli e dalla crescente dipendenza dal ‘grande fratello’ cinese.

Putin può invece legittimamente pensare che il tempo giochi a suo fare nel futuro prossimo e che ci sarà un crollo psicologico dell’occidente e in particolare dell’Europa prima che le sue difficoltà interne si rivelino insostenibili. È una delle ragioni per cui i migliori strateghi occidentali insistono per accelerare e accrescere l’aiuto militare all’Ucraina in modo da creare il più rapidamente possibile le condizioni sul terreno per un negoziato accettabile.

Strategia che ormai, più che ostacoli politici, si scontra contro problemi di approvvigionamento ed esaurimento delle scorte. In altri termini, una mobilitazione dell’industria bellica che era comunque già in atto. È la strategia giusta, che richiede però anche uno sforzo di comunicazione per evitare che la nostra opinione pubblica cada nella “sindrome CSI” prima che cambi la situazione sul terreno. Winston Churchill scrisse che gli inglesi vinsero perché erano stupidi. Quando tutte le persone intelligenti pensavano che la Germania avesse già vinto, loro non lo avevano capito e continuarono a combattere. Sarebbe quindi bene far riscoprire che tutte le guerre si vincono non solo nella testa, ma anche nella durata.

Foto di copertina EPA/MARIA SENOVILLA

Ultime pubblicazioni