Da anni l’attenzione degli attivisti ambientali e dei forum mondiali sul clima è su quello che viene definito “il polmone della terra”, la foresta amazzonica, casa di una straordinaria biodiversità e di popolazioni indigene. Tuttavia, da decine di anni questa foresta è vittima di campagne di deforestazione, dovute ad allevamenti intensivi e altri interessi economici, da parte dei governi locali, ma anche da gruppi paramilitari e narcotrafficanti.
Il nuovo governo brasiliano vuole salvare l’Amazzonia
Dopo anni di deforestazione, violenze contro i nativi e gli attivisti ambientali, il neoeletto presidente Lula da Silva ha posto la protezione dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene tra gli obiettivi primari della sua agenda politica, ma gli ostacoli sono molti, a partire da quelli posti durante il mandato dell’ex presidente negazionista Jair Bolsonaro.
La nomina di Marina Silva alla direzione del ministero dell’Ambiente e la creazione di un ministero degli Affari Indigeni, sono i primi atti del governo Lula a protezione della foresta. Lula ha inoltre nominato tre rappresentanti indigeni come funzionari del nuovo governo brasiliano e dall’inizio di gennaio il nuovo governo ha emesso diversi decreti che segnano la ripresa dei piani per combattere la deforestazione in Amazzonia e la riattivazione del Fondo per l’Amazzonia, un pool di fondi forniti al Brasile da donatori occidentali. Tra i decreti figura inoltre la revoca di misure imposte dall’amministrazione di Bolsonaro, come il decreto che ha permesso l’estrazione mineraria in terre indigene e aree protette. La revoca dovrebbe portare all’espulsione di più di 20 mila minatori illegali sul territorio. Inoltre, sono in atto provvedimenti per restituire autonomia operativa e rappresentanza al FUNAI, l’organizzazione governativa responsabile della protezione dei popoli indigeni, le cui funzioni sono state depotenziate dal personale fedele al credo delle privatizzazioni del presidente uscente.
Le conseguenze per i popoli indigeni
L’aumento significativo della deforestazione nell’Amazzonia brasiliana, stimata al 17% delle terre totali, riflette l’indebolimento ormai decennale del quadro giuridico, nonché dei processi di monitoraggio e controllo promossi dal governo Bolsonaro negli ultimi anni. Tra le minacce alla base della distruzione e del degrado ambientale in Amazzonia vi sono la mancanza di una regolamentazione a sostegno dello sviluppo sostenibile e della protezione delle risorse naturali, l’instabilità politica, l’incapacità di alcune entità istituzionali e governative di stabilire e applicare la legislazione per la conservazione della natura, la povertà e la disuguaglianza.
La prima ondata di deforestazione, nota come Operazione Amazzonia, ha avuto inizio negli anni Settanta, quando la giunta militare al governo ne ha colto l’alto potenziale di profitto, costruendo la strada Trans-Amazzonica e iniziando ad aprire così l’Amazzonia delle terre indigene allo sviluppo economico. La strada, che taglia la regione amazzonica, è stata un mezzo di incoraggiamento per i contadini poveri a colonizzare la foresta. All’epoca, si parlava di “sviluppo moderno” e di “integrare l’Amazzonia alla nazione”, le stesse parole utilizzate dalla propaganda dell’ex presidente Jair Bolsonaro nel 2018.
Nonostante gli slogan, a beneficiare dello sfruttamento dell’Amazzonia sono state le grandi imprese agroalimentari. Infatti, venne creata una catena di occupazione delle terre da parte di allevatori, disboscamento e vendite ai grandi agricoltori (fazendeiros) che ha causato l’abbattimento di migliaia di chilometri di foresta pluviale per allevare e produrre prodotti alimentari da esportare principalmente in occidente. Una breve inversione di marcia avvenne nei primi anni duemila, con le iniziative legislative promosse dalla politica ambientalista Marina Silva. Tuttavia, se per un breve periodo il compromesso tra produttività e tutela delle foreste brasiliane sembrava raggiunto, dal 2016 un gruppo di politici conservatori vicini agli interessi dell’industria agricola (ruralistas) iniziarono a imporsi come partito di maggioranza in Parlamento, mettendo di nuovo a rischio l’integrità dell’Amazzonia.
Il land grabbing e la persecuzione degli indigeni
L’agenda di Jair Bolsonaro ha sposato apertamente gli interessi del settore agroindustriale e dell’allevamento, rappresentato in Congresso dalla cosiddetta “bancada ruralista”, portatori di interessi dei land grabbers, interessati allo sfruttamento economico delle terre indigene. Sostenendo di rappresentare i brasiliani rurali e promuovendo le priorità del suo partito evangelico, le politiche e l’agenda del governo Bolsonaro hanno minacciato apertamente i diritti e le libertà costituzionali dei popoli indigeni del Brasile, sanciti nell’art.231 della Costituzione brasiliana. Inoltre, durante la presidenza Bolsonaro, la criminalità organizzata in Amazzonia – che promuove l’accaparramento di terre, la vendita di legname e l’estrazione mineraria illegali – è cresciuta in modo drastico danneggiando, di conseguenza, i territori indigeni.
Attualmente esistono circa 700 aree indigene protette, pari al 13% delle terre amazzoniche, circondate tuttavia da un incessante espansione delle terre agricole e minacciate dalle pratiche del land grabbing, un’usanza che mette in pericolo circa un milione di indigeni nativi dell’Amazzonia, che rischiano di perdere le loro terre e le peculiarità del loro modo di vivere, diritti sanciti anche nella Dichiarazione Onu dei Popoli Indigeni del 2008.
Sotto l’amministrazione Bolsonaro, i fondi allocati all’Agenzia Governativa per gli Affari Indigeni (FUNAI) sono stati tagliati drasticamente e parallelamente sono iniziate le invasioni di minatori illegali nel territorio indigeno Yanomami – una comunità che si trova nel Nord della foresta amazzonica e che copre un’area grande quanto il Portogallo – e lo smantellamento dei sistemi sanitari, causando una spirale di malnutrizione e malattie tra queste popolazioni. La questione indigena dei Yanomami è stata anche portata, nell’agosto 2021, all’attenzione della Corte Penale Internazionale dell’Aia, con l’accusa di “crimini contro l’umanità” per Bolsonaro, e nel gennaio 2023 la Polizia federale brasiliana ha aperto un’indagine sul genocidio indigeno e sull’omissione di aiuti al popolo Yanomami da parte del governo dell’ex presidente.
Verso una nuova governance dell’Amazzonia?
Nel frattempo, anche la comunità internazionale si è mobilitata. La Norvegia e la Germania hanno annunciato la riattivazione del loro contributo alla più importante cooperazione internazionale che raccoglie donazioni, il Fondo Amazzonico, per combattere la deforestazione in Amazzonia. Le aspettative sembrano incoraggianti per i difensori degli indigeni e parlano di netti cali nelle pratiche di deforestazione. Tuttavia, l’Istituto di ricerca spaziale del Brasile (INPE) che monitora il fenomeno con immagini satellitari, mostra i preoccupanti dati di febbraio 2023 con la perdita di 208 mila chilometri di foresta ed evidenzia come il fenomeno sia continuo e strutturale.
Secondo Human Rights Watch, per proteggere l’Amazzonia è necessaria una cooperazione transfrontaliera e globale, che metta in luce l’Amazzonia come bene comune per l’intera umanità, e sfrutti diverse modalità di scambio di conoscenze per la sua preservazione a livello globale. Pertanto, sarà necessario armonizzare un sistema di governance multilivello, coordinando la cooperazione internazionale e l’esecuzione della legislazione nazionale. Il Brasile è un Paese in cui lo Stato di diritto è debole nelle aree rurali, e la presenza del governo è marginale contro i furti di terra e le violenze della criminalità organizzata verso le comunità rurali, che dipendono dall’uso sostenibile della foresta in tutta l’Amazzonia.
L’attuale crisi umanitaria dei popoli indigeni ha sottolineato i problemi strutturali che devono essere affrontati con priorità dal nuovo governo, come l’estrazione mineraria illegale, l’invasione dei territori indigeni, le condizioni di salute dei popoli nativi e la deforestazione. Il nuovo governo dovrà quindi scontrarsi con il più ampio sistema economico basato sull’estrattivismo per combattere il profitto incontrollato, poiché il futuro degli Yanomami e di tutto il Brasile indigeno dipende dall’implementazione di politiche che diano priorità alla sicurezza umana e alla governance sostenibile.
Questo articolo, a cura di Ilona Zabrytska, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo
Foto di copertina EPA/Andre Borges