L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, ha scosso la politica turca e riacceso i riflettori internazionali sulla progressiva erosione dello stato di diritto nel Paese. Una spirale ormai conosciuta da tempo, e per la quale il paese è stato etichettato di “autoritarismo competitivo”, formalmente democratico, ma privo delle condizioni minime per garantire pluralismo, concorrenza politica e indipendenza delle istituzioni.
Sebbene İmamoğlu sia stato assolto dalla maggior parte dei capi d’accusa — escluse le imputazioni legate al terrorismo, restano in piedi quelle per corruzione — l’azione giudiziaria contro di lui appare come l’ultimo tassello di una strategia perseguita da tempo dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, volta a neutralizzare ogni forma di opposizione e concentrare sempre più potere nelle mani dell’esecutivo.
Le accuse e gli altri politici dietro le sbarre
Da Istanbul, a Trabzon sul Mar Nero, passando per Ankara e fino a Izmir, sulle coste del Mediterraneo, le proteste stanno infiammando le piazze turche, in una situazione così critica che ricorda le atmosfere di post golpe.
İmamoğlu non è l’unico personaggio di spicco ad essere oggi in carcere in Turchia: dalle purghe dopo le rivolte a Gezi Park nel 2013, si contano, tra gli altri, il giornalista Can Dundar (oggi in esilio in Germania), il filantropo Osman Kavala, Selahattin Demirtas, leader del partito filo-curdo nel Parlamento, e Ümit Özdağ, leader del Zafer Partisi (il partito della Vittoria). Ma İmamoğlu è certamente il rivale più importante di Erdoğan, che in questo momento prova a tenere saldo il suo potere (e quello del suo partito, l’AKP), anche grazie ad accordi con parti politiche lontane e nemiche. L’appello al PKK per il disarmo lanciato dal leader Ocalan al momento non sta ricevendo alcuna risposta positiva. Erdoğan, dunque, pensa probabilmente di andare ad elezioni anticipate, per evitare di terminare il suo mandato nel 2028 e non avere più la possibilità di ricandidarsi.
Domenica scorsa, İmamoğlu è comunque risultato vincitore delle primarie del CHP (Partito Repubblicano), a cui era stato candidato dal partito in maniera simbolica, poiché già in carcere, rafforzando così la propria legittimità politica.
L’accentramento del potere nelle mani di Erdoğan ha in questi anni scosso anche l’economia del paese, che, pur mostrando segnali di resilienza in alcuni settori, resta minacciata da scelte populiste e da una struttura produttiva squilibrata. La politica estera, inoltre, riflette un’ambizione di autonomia strategica, che ha spesso rasentato il rischio di isolare Ankara dai suoi partner tradizionali.
Per l’Unione Europea, quest’ultima evoluzione interna della Turchia pone una questione di fondo: è possibile costruire un partenariato di sicurezza con un governo che, nei fatti, si allontana sempre più dai principi democratici?
Gli equilibri internazionali: una lezione per l’Europa?
Dopo il disallineamento nei rapporti transatlantici, la Turchia ha rafforzato la sua posizione di partner strategico per la sicurezza europea e di attore chiave nei dossier migratori ed energetici. Importante snodo per l’export di petrolio e gas, Ankara intrattiene scambi commerciali con l’Unione Europea per un valore superiore ai 200 miliardi di euro annui. Dall’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, ha assunto un ruolo chiave nel controllo degli accessi al Mar Nero e nell’attuazione delle sanzioni contro Mosca. Membro della “Coalizione dei volenterosi”, recentemente è stata anche indicata come potenziale contributore di rilievo a un’eventuale missione di peacekeeping in Ucraina.
Erdoğan sfrutta dunque questa posizione a proprio vantaggio: in particolare, punta al fatto che Trump non si preoccupi più di tanto della situazione interna e dei diritti umani in Turchia, e che sia invece più interessato che Erdoğan mantenga stabile la Siria e il governo provvisorio di Mohammad al-Bashir.
Tuttavia, la lezione dell’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dovrebbe far riflettere: costruire cooperazione economica e strategica con regimi autoritari non garantisce stabilità, anzi, espone l’Europa a rischi imprevedibili. L’Unione Europea deve affermare con forza che la cooperazione con la Turchia resta auspicabile, ma condizionata al rispetto dello stato di diritto. Un partenariato strategico duraturo non può prescindere da un impegno condiviso verso la democrazia. Restare in silenzio di fronte a episodi come l’arresto di İmamoğlu significherebbe tradire non solo i cittadini turchi, ma anche i fondamenti stessi dell’integrazione europea. L’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dimostra i rischi di scommettere sulla stabilità attraverso la cooperazione economica con regimi autoritari. Un’Europa che oggi cerca maggiore autonomia strategica non può fondare le proprie alleanze su regimi imprevedibili e privi di trasparenza.
Responsabile del Programma Formazione e ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali per il programma Mediterraneo e Medio Oriente e Africa. È membro dell’Editorial Committee della rivista The International Spectator e di COST (European Cooperation in Science and Technology).