I limiti della cooperazione europea allo sviluppo

La tragedia di Cutro ci ha ricordato nel peggiore dei modi che le migrazioni sono insieme all’emergenza ambientale il tema prioritario della politica italiana ed europea. In queste occasioni molti lo riconoscono, ma pochi, pochissimi si comportano di conseguenza.

La politica, in particolare quella italiana, si concentra costantemente sul problema degli sbarchi. Da un lato c’è chi li vorrebbe eliminare, dall’altro chi invece auspica una loro gestione più “umanitaria”. Basta però, alzare un poco lo sguardo per capire che quello degli sbarchi non è che un sintomo di una malattia ben più grave e complessa. Sono sufficienti pochi dati per rendersene conto.

Le ragioni delle migrazioni

Scorrendo le pagine del libro di Stephen Smith, dal titolo premonitore Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio Continente, ne troviamo parecchi. In primo luogo il fattore demografico: l’Africa oggi ha una popolazione che è circa il doppio di quella europea ed entro il 2050 sarà oltre il triplo. L’età media degli africani è di 19 anni, quella degli europei di 45. Passando alle condizioni socio-economiche, in Africa 400 milioni di abitanti soffrono di malnutrizione, 100 milioni di bambini sono anemici ed il 60% di loro non avrà uno sviluppo sano. I 10 paesi con il pil pro-capite più basso al mondo si trovano tutti in Africa e tra gli ultimi 50, 35 sono a sud del Mediterraneo. Mentre tra i primi 50 Paesi al mondo per ricchezza pro-capite non vi è alcuno Stato africano.

Infine, sul piano politico, secondo Freedom House, su 52 Stati africani 5 presentano un governo democratico, 20 lo sono solo parzialmente, mentre 27 sono classificati come non democratici. Quasi la metà dei conflitti armati attualmente in corso si svolgono in Africa.

Tenendo conto di questi dati, non c’è quindi da meravigliarsi se oggi il 32% dei giovani africani diplomati intende emigrare e, guardando in prospettiva, si stima che entro il 2050 le persone di origine africana che vivranno in Europa saranno circa 200 milioni.

È evidente che ci troviamo di fronte ad un fenomeno epocale di dimensioni e caratteristiche tali, che non esiste barriera fisica che potrà contenere il flusso crescente di migranti, che dal Sud del mondo – in particolare dall’Africa – è diretto in Europa. Quindi, a meno che non si vogliano militarizzare i confini consentendo l’uso delle armi per respingere gli arrivi, tragedie come quella di Cutro sono destinate a riproporsi a ritmo incrementale.

Esiste un’unica alternativa a questa emergenza umanitaria: dare avvio a serie ed efficaci politiche di promozione dello sviluppo sostenibile e della democrazia nel Sud del mondo. Solo riducendo le enormi diseguaglianze, che separano la ‘ricca e sicura’ Europa, dalla ‘povera e insidiosa’ Africa si può sperare di contenere l’esodo.

L’indice della qualità degli aiuti allo sviluppo

Cosa si sta facendo in questa direzione? Purtroppo poco, anche in Italia. E questo nonostante paesi europei di confine come il nostro abbiano un forte interesse a che il tema della promozione dello sviluppo venga preso sul serio, invece di concentrarsi quasi ossessivamente sul tema dei respingimenti alle frontiere e dei rimpatri.

Iniziamo dagli aspetti finanziari. Fin dagli anni Settanta nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) fu preso l’impegno da parte dei Paesi più sviluppati, di portare la quota degli aiuti pubblici per lo sviluppo (Ops) allo 0,7% dei rispettivi prodotti interni lordi. Tuttavia, fino ad oggi solo pochi dei 30 Paesi donatori Ocse hanno raggiunto quella soglia (Svezia, Danimarca, Norvegia, Germania e Lussemburgo) e la percentuale complessiva non è mai arrivata oltre lo 0,4%. Attualmente gli Ops si aggirano, in termini assoluti, intorno ai 150 miliardi di dollari all’anno. Tali fondi, tuttavia, vanno ripartiti tra 141 paesi, dei quali, in particolare, 46 sono considerati i meno sviluppati in assoluto (Ldc’s – con Pil pro-capite di circa 1 dollaro al giorno), e corrispondono a quasi un miliardo di persone; e 36 a reddito medio-basso (Lic’s – con PIL pro-capite di meno di 4,1 dollari al giorno).

Passando al piano operativo, non tutti gli aiuti pubblici allo sviluppo vanno ai paesi in via di sviluppo (pvs). Questo accade perché una quota rilevante del sostegno allo sviluppo corrisponde al cosiddetto aiuto legato (tied aid), ossia contributi attraverso i quali i paesi donatori finanziano imprese ed enti nazionali, che operano nel Sud del mondo. Si calcola che circa il 50% degli accordi bilaterali di cooperazione allo sviluppo (che rappresentano un terzo del totale degli Ops) siano aiuti legati.

Un altro fattore da considerare è rappresentato dai cosiddetti aiuti gonfiati. Questi corrispondono a voci di spesa che sono computate nel budget complessivo della cooperazione allo sviluppo, ma che in realtà riguardano aspetti che hanno a che vedere solo marginalmente con la lotta alla povertà nel mondo. In particolare, molti Paesi donatori inseriscono i fondi relativi alla gestione dei rifugiati tra quelli del sostegno allo sviluppo. Così l’Italia, che sembrava essere passata dalla percentuale sul pil per Ops dallo 0,23% del 2020 allo 0,29% del 2021. In realtà, eliminando le spese per le politiche migratorie, la quota del sostegno allo sviluppo è arretrata allo 0,22%.

Più in generale, la maggior parte degli Stati donatori, e in particolare quelli che in termini assoluti contribuiscono maggiormente all’aiuto pubblico allo sviluppo, non brillano per efficienza nella realizzazione degli obiettivi che si prefiggono di raggiungere. A tale riguardo, da un’indagine pluriennale sulla qualità della spesa sugli Ops (QuODA—the Quality of ODA), in cui si tiene conto di 4 indicatori in particolare (prioritarizzazione, partnership, trasparenza e competitività, perseguimento obiettivi), vari Paesi, tra cui l’Italia, risultano decisamente poco efficienti nell’attuazione delle loro politiche di sostegno.

L’Unione europea, come noto, è di gran lunga il leader del sostegno allo sviluppo. Insieme agli Stati membri, infatti, il suo contributo ammonta ad oltre il 43% del totale degli aiuti pubblici ai pvs. Inoltre, fin dagli anni Settanta con le Convenzioni di Lomé prima e con l’accordo di Cotonou dal 2003 al 2020, opera attraverso strutture multilaterali per realizzare in modo costante e coordinato, strategie di promozione dello sviluppo nei Paesi bisognosi di sostegno, in particolare in Africa, Caraibi e Pacifico (paesi ACP).

Le difficoltà di Bruxelles sulla cooperazione

Tale quadro oggi è in crisi. L’Unione europea, a più di due anni dalla scadenza della Convenzione di Cotonou (il trattato bilaterale tra Ue e Acp per l’integrazione di questi paesi nell’economia mondiale) non riesce a ottenere la ratifica del nuovo strumento multilaterale che dovrebbe guidare la cooperazione allo sviluppo per i prossimi 20 anni, ossia la cosiddetta Convenzione post-Cotonou. L’accordo, che coinvolge 79 paesi ACP, per entrare in vigore necessita della ratifica di tutti gli Stati membri, e tra questi l’Ungheria si oppone perché vorrebbe norme più restrittive proprio in materia di migranti . E questo nonostante la nuova Convenzione contenga disposizioni più avanzate rispetto al passato in questo ambito. In particolare, l’obbligo per i paesi ACP di rimpatriare immigrati irregolari presenti nel territorio europeo.

Più in generale, anche con l’entrata in vigore della Convenzione post-Cotonou il quadro complessivo non dovrebbe mutare in maniera significativa. Anzi, sotto alcuni aspetti potrebbe addirittura peggiorare. Il sostegno europeo allo sviluppo non sarà più garantito dall’attuale Fondo di sviluppo europeo, concepito come meccanismo ad hoc per le esigenze dei pvs, bensì attraverso Global Europe. Si tratta di un nuovo strumento con il quale saranno finanziate le principali attività esterne della Ue (politica di vicinato, sostegno ai diritti umani, cooperazione allo sviluppo). Finalità plurime rispetto alle quali i rappresentanti dei paesi ACP hanno sollevato preoccupazioni. Stesso atteggiamento di diffidenza riguarda anche gli Accordi di partenariato commerciale, che saranno slegati dal sistema post-Cotonou.

Nuovo Cotonou:nessuna novità

Ma l’aspetto più deludente riguarda l’intero impianto della nuova Convenzione con i paesi ACP e della cooperazione allo sviluppo dell’Ue più in generale. A parte l’aspetto finanziario, che vede comunque l’Europa rimanere complessivamente ben al di sotto dell’obiettivo dello 0,7%, sul piano politico non vi è alcun cambiamento significativo rispetto al passato. La clausola di condizionalità democratica rimane vaga e poco applicabile, non vi sono impegni significativi nel campo del trasferimento scientifico e tecnologico, sul piano imprenditoriale compaiono solo generiche affermazioni. Ampio spazio, invece è riservato alle clausole riguardanti le migrazioni, rispetto alle quali non si riscontra una piena condivisione di orientamento tra Ue e paesi ACP.

In generale, quindi, lo scenario che si delinea è insoddisfacente e per niente rassicurante. Nel senso che, se quello descritto è l’impegno profuso dai donatori europei per favorire processi di crescita ed emancipazione, in particolare per l’Africa, non c’è da attendersi che la spinta migratoria rallenti, anzi al contrario l’aspettativa più realistica è che aumenti ulteriormente.

Foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET / POOL

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