La parabola di Kaïs Saïed: da “salvatore della patria” ad autocrate

Durante questi nove mesi intensi e drammatici, pieni di colpi di scena ma anche segnati dallo svelarsi di un piano graduale ma coerente e continuo di smantellamento delle speranze di consolidamento della giovane democrazia tunisina, molti si sono interrogati circa la figura ma soprattutto la provenienza delle idee e delle azioni di Kaïs Saïed, l’uomo che ha assunto su di sé tutti i poteri.

Democrazia diretta e partecipazione popolare

La comparsa di Saïed sulla scena politica tunisina è di fatto un portato della rivoluzione dei gelsomini del 2011 e di essa e dei suoi slogan egli si è nutrito. Con l’avvio della fase di passaggio istituzionale nel Paese con due governi di transizione guidati da Mohamed Ghannouchi, ex primo ministro sotto Ben Ali, Saïed iniziò a cavalcare la necessità di una rottura completa con il sistema di governo precedente, necessità condivisa da forze politiche e ideologiche molto diverse in Tunisia a quel tempo (nazionalisti, attivisti di estrema sinistra, Islamisti di Ennahda).

Al contempo, Saïed non tardò a mettere i paletti a una possibile collaborazione trasversale in nome della rivoluzione: egli – e i suoi sostenitori – odiava i partiti politici e non credeva nelle istituzioni della democrazia rappresentativa, primo tra tutti il Parlamento. Si trattava di un primo afflato di populismo e di retorica partecipativa sulla sponda meridionale del Mediterraneo, indirettamente influenzato dall’esperienza dei movimenti populisti in Europa esemplificata dal Movimento 5 Stelle.

Saïed era altresì convinto che le speranze e le aspettative rivoluzionarie in termini di uguaglianza, dignità e giustizia fossero state tradite e che ciò significava la delusione del popolo tunisino e del proprio sacrificio. Saïed e i suoi sostenitori parlavano alla gente, sfruttavano le opportunità d’interazione offerte dalla rete e volevano contribuire al cambiamento profondo del Paese al di fuori dagli schemi istituzionali e politici tradizionali.

Nuove elezioni in una Tunisia instabile

Di fatto il messaggio di Saïed andò radicandosi sempre più all’interno della società tunisina a partire dalle prime elezioni amministrative del dopo rivoluzione tenutesi nel 2018. Quelle elezioni furono infatti vinte da liste indipendenti guidate da candidati della società civile. Molti dei candidati risultati vincitori arrivarono alla ribalta grazie alla loro capacità di proporre soluzioni concrete ai problemi di gestione politica. Tuttavia, nella maggior parte dei casi essi non riuscirono a costruire una vera e propria piattaforma politica indipendente dotata di programma politico al di là delle critiche agli attori tradizionali e al loro modo di fare politica.

Nel luglio 2019 la morte di Beji Caid Essebsi scompigliò il calendario elettorale tunisino anteponendo le elezioni presidenziali a quelle parlamentari. Ciò portò alla necessità di trovare una figura in grado di assumere su di sé il ruolo di “salvatore della patria” di fronte a una situazione socio-economica che continuava a essere molto precaria con un tasso di disoccupazione che sfiorava il 16%, un debito pubblico al 90% del Pil e ripetute proteste e disordini sociali nelle regioni marginalizzate.

La ricerca di un “salvatore della patria”

In quel contesto, il populismo tunisino fece un salto di qualità tanto con la ripresa di alcuni slogan della rivoluzione del 2011 quanto mostrando forti tendenze contro-rivoluzionarie. Da una parte, il populismo di Kaïs Saïed intendeva segnare una rottura netta con la classe politica, le istituzioni e le élite che avevano gestito la fase di transizione alla democrazia e che in gran parte, a suo avviso, avevano fallito. Dall’altra, la retorica del partito di nostalgici del vecchio regime, il Parti destourien libre, guidato da Abir Moussi – ex vicesegretario generale del Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD), il partito di Ben Ali – rappresentava una novità assoluta nel panorama politico degli otto anni precedenti.

In una situazione di polarizzazione ideologica e di sbandamento dei partiti tradizionali, l’insolita campagna elettorale di Saïed, condotta grazie al legame di fiducia stabilito con i propri sostenitori e incentrata sulla necessità di combattere la corruzione, di denunciare la violazione delle leggi costituzionali e di mettere le persone, e soprattutto i giovani, al centro della vita politica del Paese, riuscì a fare breccia in una popolazione tunisina stanca e delusa. Per quanto vaghe le sue proposte, la semplicità dello slogan “la gente vuole”, già echeggiato nelle piazze del Paese durante la rivoluzione, aveva il vantaggio di essere svincolato da qualsiasi programma o partito da promuovere.

Tensioni inter-istituzionali e crisi politica

L’elezione di Kaïs Saïed a Presidente della Repubblica il 13 ottobre 2019 venne salutata come una vittoria anche dalla maggior parte dei leader politici dei vari partiti del Paese, come il socialdemocratico Moncef Marzouki, l’islamista Abdelfateh Mourou, l’islamista radicale del partito Karama, Selfeddine Makhlouf, il conservatore Lofi Mouhi, i nazionalisti arabi e persino – in una prima fase – da Rached Ghannouchi ed Ennahda. Nonostante la larga maggioranza, tuttavia, Saïed si rese ben presto conto di avere scarsa libertà di azione.

Ciò lo pose in rotta di collisione con il Parlamento, tradizionalmente un’istituzione abbastanza potente, guidato da Ghannouchi, il quale secondo Saïed – si era macchiato della “colpa” di aver creato una sorta di diplomazia parallela che contribuiva a screditare la figura del Presidente.

La questione delle prerogative dei tre “capi” di Stato (presidente, presidente del Parlamento e primo ministro) portò a una vera e propria crisi politica all’inizio del 2021. A gennaio di quell’anno, mentre la rabbia sociale montava in diverse parti del Paese di fronte a una situazione socio-economica insostenibile e mentre la popolazione si preparava ad affrontare la seconda ondata drammatica della pandemia da Covid-19, Saïed prese le distanze dal premier Hichem Mechichi, accusandolo di essere responsabile di una situazione politica sempre più difficile.

Allo stesso tempo, il presidente prendeva tempo e temporeggiava sul giuramento dei ministri nominati nell’ambito di un rimpasto di governo, si rifiutava di emanare una legge organica sull’istituzione della Corte costituzionale e montava la sua polemica personale nei confronti del Parlamento e di Ghannouchi.

Il resto è la storia recente della Tunisia che negli ultimi nove mesi ha visto il completamento della parabola di Saïed da “salvatore della patria” ad autocrate, parabola che ha inferto un duro colpo alle prospettive democratiche del Paese.

Sicuramente gran parte della responsabilità per la situazione in cui versa la Tunisia oggi riguarda la traiettoria politica, delle idee e delle scelte di Saïed stesso. Allo stesso tempo, però, sarebbe sbagliato non collocare questa traiettoria nel quadro più ampio delle lacune e delle logiche di potere perverse che di fatto hanno creato le condizioni per l’inceppamento della giovane democrazia tunisina.

Foto di copertina EPA/MOHAMED MESSARA

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