Braccio di ferro sul Niger

A più di due mesi dal colpo di Stato in Niger, continua il braccio di ferro tra i golpisti capeggiati dal generale Abdourahamane Tiani, e i paesi che chiedono il ripristino dell’ordine costituzionale e la liberazione di Mohamed Bazoum, il presidente democraticamente eletto nel marzo 2021. Mentre non si intravedono spiragli per un negoziato, rimane ancora elevato il rischio di un conflitto armato che potrebbe coinvolgere diversi Stati dell’Africa occidentale, con effetti destabilizzanti a vasto raggio.

Il fronte antigolpista è ampio – comprende l’Ue, gli Usa e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Economic Community of West African States, Ecowas) – ma incerto e diviso al suo interno sulla strategia per mettere alla corda la giunta di Tiani. La Francia, che ha circa 1.400 militari in Niger, ha finora mantenuto la posizione più ferma. L’ambasciatore francese è ancora al suo posto nonostante dieci giorni fa gli fosse stato ingiunto di lasciare il paese entro 48 ore. In un recente discorso agli ambasciatori francesi, il presidente Emmanuel Macron ha orgogliosamente rilanciato questo guanto di sfida alla giunta golpista.

Accuse alla Francia

Vari sono però i capi di accusa rivolti alla politica della Francia e dei paesi occidentali in Africa occidentale, ma essenzialmente due: di non aver messo in condizione i governi locali di ripristinare il controllo sui propri territori contro le forze secessioniste e l’insorgenza jihadista, nonostante l’assistenza finanziaria e le ripetute operazioni militari; e di aver sostenuto leader locali corrotti e impopolari. I militari che hanno rovesciato i governi civili in Mali (agosto 2020) e Burkina Faso (gennaio 2022) hanno fatto leva su questo diffuso malcontento.

I perché del golpe

Per giustificare il colpo di Stato, la giunta nigerina ha accusato il governo civile di Bazoum di essere responsabile di un “deterioramento continuo della situazione di sicurezza” e di malgoverno. L’esecutivo di Bazoum aveva però ottenuto, per riconoscimento unanime, successi significativi nella lotta anti-jihadista, al contrario dei governi civili rovesciati in Mali e in Burkina Faso.

Più complessa la questione del malgoverno. Nel 2020 Macron aveva lodato il Niger come un “esempio per la democrazia”. Anche sotto il governo di Bazoum e del suo predecessore Mahanadou Issofou erano però molto diffusi corruzione e nepotismo. Lo strapotere e i soprusi del partito dominante – il Partito nigerino per la democrazia e il socialismo – avevano suscitato un forte rancore popolare, generando sfiducia nel sistema democratico.

Stando ai sondaggi, una fetta consistente della popolazione nigerina pensa che i militari possano riportare ordine e, in generale, migliorare la situazione del paese, e auspicano una rottura dei legami con i paesi occidentali, in particolare la Francia.

La questione del malgoverno ha però poco a che vedere con le reali motivazioni del colpo di Stato. L’obiettivo di Tiani e della elite militare che l’ha sostenuto è soprattutto quello di difendere i propri privilegi. Come capo della guardia presidenziale Tiani aveva accumulato una fortuna, che distribuiva ai suoi sodali. Questa base di potere era minacciata dal tentativo di Bazoum di ridurre i fondi a sua disposizione e ottenere maggiore trasparenza sul loro utilizzo.

Truppe francesi nel mirino

La questione delle truppe francesi di stanza in Niger è una delle più scottanti. A inizio agosto la giunta militare ha denunciato gli accordi di cooperazione militare firmati con il governo francese tra il 1977 e il 2020, chiedendo la chiusura delle basi francesi entro l’inizio di settembre. Parigi ha finora spostato solo un numero limitato di effettivi e mezzi nel confinante Ciad, dove ha circa 1.500 uomini. Un ritiro totale sarebbe logisticamente molto impegnativo, non compatibile con i tempi rapidi che vorrebbe imporre la giunta nigerina.

Per ora, comunque, il governo francese tiene duro, e non è disposto a chiudere le basi. I soldati francesi sono già stati costretti, a seguito di golpe militari, a lasciare il Mali (agosto 2022) e il Burkina Faso (febbraio 2023). La presenza in Niger è ora per la Francia di ancor più cruciale rilevanza strategica per la proiezione nell’area del Sahel.

Rischi per la giunta militare

Parigi mantiene questa linea di fermezza anche perché conta su un indebolimento dei golpisti nigerini. Alcuni fattori potrebbero in effetti metterli in crescente difficoltà. Da quando si sono impadroniti del potere si assiste a un peggioramento delle condizioni di sicurezza. Gli attacchi delle milizie jihadiste sono in marcato aumento.

Ci sono poi divisioni all’interno dell’esercito che potrebbero venire progressivamente alla luce. La giunta ha già attuato alcune epurazioni negli alti comandi. Ma la tenuta del governo golpista è a rischio soprattutto per effetto delle sanzioni occidentali e del persistente isolamento internazionale, che hanno già fortemente eroso la capacità del governo militare di fornire servizi essenziali alla popolazione.

L’opzione militare e quella diplomatica

Macron ha ribadito che la Francia è al fianco dell’Ecowas e ne sosterrà le azioni diplomatiche e militari. Nell’eventualità di un intervento armato di Ecowas non è però chiaro se il sostegno sarebbe politico o anche finanziario e logistico. Ecowas aveva fissato un ultimatum al 6 agosto per la liberazione e il reinsediamento al potere di Bazoum, minacciando in caso contrario un intervento militare, a cui si erano dichiarati pronti a partecipare sei Paesi (Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea-Bissau, Nigeria e Senegal). I militari al potere in Burkina Faso e Mali hanno invece reso noto che considereranno ogni intervento in Niger una dichiarazione di guerra contro i loro Paesi.

Allo scadere dell’ultimatum Ecowas non ha dato seguito alla minaccia di intervento. Ha finora prevalso nei paesi Ecowas il timore di rimanere invischiati, nel caso la giunta golpista resistesse, in un conflitto dagli effetti imprevedibili, mentre rimane più che mai incombente la minaccia jihadista. Un governo civile reintegrato grazie a un intervento militare rischierebbe poi di essere visto, ancor di più, come un fantoccio di potenze straniere.

L’opzione militare rimane sul tavolo, ma lo scetticismo sulla possibilità di realizzarla cresce. Gli Usa, che hanno 1.100 soldati in Niger in funzione antijihadista, hanno espresso una netta preferenza per la via diplomatica. La Casa Bianca si è mossa con grande cautela. Il presidente Joe Biden ha persino evitato di definire un colpo di Stato la presa del potere da parte dei militari. Finora Washington non ha peraltro ricevuto richieste di ritirare le truppe dal paese. Molti paesi Ue, incluse la Germania e l’Italia, hanno a loro volta invitato alla prudenza, esprimendo timori per i rischi che potrebbe comportare un intervento militare. Anche il sostegno finanziario a eventuali azioni di Ecowas suscita dubbi e perplessità nell’Unione.

D’altro canto, tutti i tentativi esperiti finora di aprire un dialogo con la giunta nigerina, mentre le si continua a negare il riconoscimento internazionale a cui ambisce, sono falliti.

Lo spazio di azione dei Paesi, in particolare quelli occidentali, interessati a porre fine a quella che Macron ha chiamato l’ “epidemia di putschs” e a ripristinare il governo civile in Niger appare molto limitato anche per la crescente ostilità della popolazione locale e delle altre sfide che si trovano ad affrontare nel Sahel. Il timore di un prolungato conflitto su scala regionale induce a privilegiare la via negoziale. La giunta al potere a Niamey potrebbe però avere crescenti difficoltà a tenere sotto il controllo il paese. Potrebbero scaturirne nuove dinamiche destabilizzanti che chiamerebbero ulteriormente in causa la responsabilità degli attori internazionali.

Foto di copertina EPA/ISSIFOU DJIBO

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