L’Italia si appresta a partecipare a una missione militare europea per proteggere il traffico navale nel Mar Rosso dagli attacchi del movimento Houthi, mentre pochi anni fa interrompeva le esportazioni militari proprio contro i Paesi – Arabia Saudita ed Emirati – che all’epoca contrastavano gli Houthi in Yemen, arrecando un grave e ingiustificato danno alla credibilità del Paese in campo internazionale.
La sospensione delle esportazioni militari italiane verso Arabia Saudita ed Emirati
Il 29 luglio 2019, l’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento del Ministero degli affari esteri (UAMA) sospendeva le licenze di esportazione per bombe d’aereo destinate ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Governo Conte 1 con Ministro degli esteri Moavero Milanesi), rilasciate fra il febbraio 2012 e quello 2015 (Governi Monti, Letta e Renzi). La motivazione era il loro utilizzo contro la popolazione civile dello Yemen da parte delle aeronautiche dei due Paesi, negli interventi a sostegno del Governo di quel Paese, contro il movimento Houthi, cominciata all’inizio del secolo.
Il 22 dicembre 2020 la Commissione esteri della Camera approvava una risoluzione, col parere favorevole del Governo (Conte 2 con Ministro degli esteri Di Maio), in cui invitava il Governo a revocare definitivamente le licenze verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti “relative alle esportazioni di bombe d’aereo e missili, che possono essere utilizzati per colpire la popolazione civile” e a ”mantenere la sospensione della concessione di nuove licenze per i medesimi materiali e Paesi e a valutare la possibilità di estendere tale sospensione anche ad altre tipologie di armamenti”.
Il 29 gennaio 2021 il Ministro degli esteri Di Maio comunicava, con grande clamore, la sua decisione di revocare le licenze verso i due Paesi, nonostante il Governo fosse dimissionario dal 26 gennaio e, quindi, era in carica solo per il disbrigo degli affari correnti. Oltre tutto, il previsto cambio di maggioranza avrebbe dovuto suggerire, anche per questo, il rinvio di ogni decisione. Per altro, le risoluzioni delle Commissioni parlamentari rappresentano un messaggio politico al Governo, un “invito” in termini formali, e quindi non costituivano atti giuridicamente vincolanti. Ma, ancora una volta, ha prevalso la brutta abitudine italiana di utilizzare strumentalmente la politica internazionale a fini politici ed elettorali interni.
Questa decisione scatenò immediatamente, come prevedibile, un “effetto valanga”, danneggiando i rapporti con i due Paesi amici. Il risentimento, soprattutto degli emiratini, nei confronti dell’Italia per una scelta inaspettata e, ai loro occhi, inspiegabile, è legato a diverse motivazioni: coinvolgimento diretto della monarchia locale che gestisce il governo; colpiti dall’embargo quando già avevano chiuso l’intervento militare nel conflitto yemenita; offesi nel loro orgoglio nazionale, costringendoli a mettere a terra i velivoli italiani della loro pattuglia acrobatica per la mancata fornitura di parti di ricambio; additati di fatto al mondo come colpevoli di crimini contro l’umanità; traditi da un Paese che ritenevano amico, in cui avevano registrato ingenti perdite su investimenti “patrocinati” dal governo italiano (Alitalia, Piaggio, ecc.).
In questo quadro, la reazione emiratina non si fece attendere, con la chiusura nel giugno 2021 della base italiana di Al Minhad e, nello stesso mese, la mancata autorizzazione al sorvolo nei confronti del velivolo che trasportava in Afghanistan i giornalisti al seguito del Ministro della difesa Guerini per la chiusura della missione italiana. Ma, soprattutto, ha comportato l’esclusione delle imprese italiane dalle possibili commesse dei due Paesi e compromesso l’immagine dell’Italia sul mercato internazionale come fornitore affidabile in campo militare, anche grazie al sapiente utilizzo mediatico da parte dei concorrenti europei e non.
Il cambio di rotta del governo italiano
Già dopo sei mesi comincia la marcia indietro italiana. Il 5 luglio 2021 UAMA comunica la sospensione della sua decisione di chiedere un End User Certificate “rafforzato” ai due Paesi per la fornitura di altro materiale militare (escluso dall’embargo): una formale dichiarazione che non sarebbe stato utilizzato nel conflitto in corso nello Yemen. Una richiesta “originale”, tenendo conto che ogni Paese ha un diritto alla difesa riconosciuto da tutti i trattati internazionali e che nessuno – soprattutto nelle aree più destabilizzate – è in grado di prevedere cosa potrebbe avvenire anche nel breve-medio periodo. Un mese dopo, il 5 agosto 2021, il Governo Draghi prende atto che “l’impegno militare degli Emirati Arabi Uniti in Yemen era cessato”.
Ma la speranza che questi segnali potessero accontentare i due Paesi si è subito dimostrata vana. Solo dopo due anni si è cominciato seriamente a porre rimedio alle precedenti decisioni italiane.
Il 17 aprile 2023 il governo Meloni comunica che, “considerati i nuovi elementi, ha dato attuazione a quanto stabilito dal precedente governo e dunque attesta che l’esportazione di materiali d’armamento negli Emirati Arabi Uniti non ricade più tra i divieti stabiliti dall’articolo 1, commi 5 e 6, della legge 9 luglio 1990 n. 185”.
Un mese e mezzo dopo, il 31 maggio, il governo prende un’analoga decisione verso l’Arabia Saudita, comunicando che “le motivazioni alla base di tali provvedimenti sono venute meno. Da aprile 2022, anche grazie alla tregua convenuta fra le parti, le attività militari sono fortemente rallentate e circoscritte. La significativa riduzione delle operazioni belliche comporta un’attenuazione altrettanto significativa del rischio di uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili”. Pertanto, “su questo sfondo e alla luce della mutata situazione del conflitto, in linea con la scelta fatta nell’aprile scorso nei confronti degli E.A.U.”, si attesta “che l’esportazione di bombe d’aereo e missili verso l’Arabia Saudita non ricade nei divieti di esportazione stabiliti dall’articolo 1, commi 5 e 6, della legge 9 luglio 1990 n. 185, essendo conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia”.
L’ironia della Storia
Questa lunga ricostruzione evidenzia come le decisioni di sospendere o, a maggior ragione, annullare i contratti di fornitura di equipaggiamenti militari ad un Paese debbano essere molto attentamente valutate, considerandole nelle loro implicazioni dirette e indirette e nella loro proiezione temporale. Una valutazione sugli effetti per il sistema-Paese che deve essere fatta a livello interministeriale e portare a decisioni assunte al massimo livello politico.
Per superare la competenza esclusiva al Ministro degli esteri è, quindi, necessario ricostituire quel Comitato Interministeriale per gli Scambi di materiali di armamento per la Difesa (CISD), voluto dal legislatore nella legge 185 originaria e sciaguratamente soppresso nel 1993, nel quadro della semplificazione dell’attività del governo (buttando via anche il bambino insieme all’acqua sporca). Di qui, l’apprezzabile proposta del Governo Meloni dell’agosto 2023 di ricostituirlo, attualmente all’esame del Parlamento. Peccato che si sia persa l’occasione per “aggiornare” tutta la normativa che risente pesantemente dei 35 anni trascorsi, un periodo dove tutto è cambiato nel mondo della difesa. E doppio peccato perché la soluzione proposta desta qualche perplessità: dall’esclusione del Ministero dell’Economia all’incarico di Segretario del Comitato assegnato al Sottosegretario alla Presidenza che, invece, avrebbe dovuto essere indicato come possibile delegato del Presidente del Consiglio e, infine, alla cancellazione di quell’Ufficio di supporto al CISD e al Presidente del Consiglio che la legge originaria aveva istituito per dare al Governo una propria mini-struttura con la necessaria autonomia e competenza. In ogni caso, la riforma attualmente in discussione avrebbe il beneficio di inibire future improvvide decisioni politiche da parte di un singolo ministro che sacrificano gli interessi e la credibilità del Paese per miopi calcoli politici interni.
Infine, bisognerebbe riflettere sull’ironia della storia. Nel 2019 l’Italia, che si è eretta a giudice quando a bombardare gli esponenti del movimento Houthi erano Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, adesso paga le pesantissime conseguenze economiche del blocco ad opera degli stessi Houthi del traffico navale sulla rotta indo-mediterranea, spostatosi su quella attorno all’Africa con il relativo aumento dei tempi e dei costi e col rischio di indirizzarlo verso i porti del Nord Europa. E, insieme, le paga l’Egitto, la cui stabilità dovrebbe essere messa fra i primi posti delle preoccupazioni occidentali.
A meno di cinque anni di distanza dalle lezioni impartite agli altri, rischiamo di doverci impegnare in prima persona per contrastare gli Houthi. Indispensabile farlo sotto la bandiera europea, ma ricordiamoci che al suo fianco ci sarà quella tricolore.