Il secondo semestre del 2023 ha visto lo sgretolarsi delle ambizioni “geopolitiche” dell’Unione europea, annunciate dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’inizio del suo mandato. L’Unione ha superato bene le crisi scatenate dalla pandemia e dall’invasione russa dell’Ucraina, a patire dalla militarizzazione dell’energia da parte di Mosca, ma ora pare abbia perso la bussola, dimenticando l’arte di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa unita, di trasformare le crisi in opportunità per una maggiore integrazione.
Internamente, le forze nazionalpopuliste che remano contro il Green deal europeo si fanno più forti, sostenendo che la transizione energetica non sia che una ricetta fatta di lacrime e sangue. Insomma, tutt’altro che la via per un’Europa più sostenibile, prospera e giusta.
Anche la spinta verso una politica industriale europea si è affievolita, con la decisione di eliminare dall’eventuale revisione del bilancio europeo (sempre che a gennaio Victor Orban sia ridotto a più miti consigli) nuove fonti di finanziamento destinate a tali fini. Il rischio è infatti l’opposto: senza finanziamenti comuni e con il costante ricorso agli aiuti di Stato (da parte degli Stati membri che possono permetterselo), c’è la minaccia concreta dell’indebolimento del mercato unico europeo, che certo non gioverà all’industria europea.
Esternamente la situazione è ancora più critica. Nella guerra in Ucraina, mentre la Russia si è ristrutturata in un’economia di guerra, determinata a portare avanti uno scontro perpetuo contro l’Occidente (oggi in Ucraina, domani chissà), le potenze occidentali stanno aprendo gli occhi solamente ora riguardo al fatto che la loro strategia, mirata a non far perdere Kyiv ma non a farla vincere, sia arrivata al capolinea. Ci stiamo svegliando ora – chi più e chi meno – riguardo al fatto che non esiste un magico mondo di negoziati con Mosca frutto di uno “stallo”, ma che questa è una guerra che o si perde o si vince. Se dovessimo perderla per “stanchezza”, le vittime non sarebbero solo gli ucraini ma tutti gli europei. L’Europa sa che l’Ucraina è oramai parte integrante della sicurezza europea e l’avvio dei negoziati di adesione con Kyiv e Chişinău, per quanto l’inizio di un lungo viaggio, ne sono testimonianza. Siamo tuttavia ben lontani dall’agire di conseguenza, specie in materia di difesa.
Al di là del continente europeo, la posizione dell’Unione è ancor più critica. La guerra in Ucraina ha reso evidente sia l’importanza delle opinioni e posizioni del sud globale, sia la reputazione tutt’altro che positiva dell’Europa in molte parti del mondo . La guerra in Medio Oriente, in cui l’Europa è divisa e debole, a traino di una Casa Bianca strattonata da forze di politica interna e dettata dalla testardaggine di un presidente ottantunenne, non “solo” sta generando un massacro senza precedenti di palestinesi, ma non può che ridurre a medio e lungo termine anche la sicurezza di Israele. Il mondo ci osserva, convinto sempre più della nostra debolezza e ipocrisia.
Tutto questo sarebbe già molto, eppure il 2024 rischia di aggiungere altro al menù delle sfide. A partire dalle elezioni europee che vedono le forze nazionalpopuliste di destra con il vento in poppa. Per non parlare degli Stati Uniti, dove la rielezione di Donald Trump è quanto meno verosimile. E anche se nulla di tutto ciò dovesse accadere in questo nuovo anno, la sola eventualità complicherà enormemente l’agenda politica nel primo semestre, aumentando il rischio di uno stallo sull’agenda climatica, dando manforte a Viktor Orban nel suo tentativo di sabotare l’Europa, riducendo l’ambizione e l’attenzione sull’Ucraina e sulle riforme interne all’Unione, mentre rimaniamo inermi riguardo a una guerra in Medio Oriente sull’orlo della regionalizzazione.
Se andrà tutto bene, il 2024 sarà un anno difficile in cui l’Europa al massimo rimarrà a galla, ma poco più. Una condizione certamente necessaria ma tutt’altro che sufficiente per riscoprire l’arte di Jean Monnet.