Il 2024 è l’anno delle elezioni. Sono più di quattro miliardi i cittadini nel mondo chiamati alle urne nei prossimi mesi, nell’anno elettorale più importante di sempre. Tra i Paesi in cui si svolgeranno le elezioni, ci sono liberal-democrazie e Paesi autoritari, Paesi in pace e in guerra, Paesi in cui la democrazia può consolidarsi e altri in cui si radicherà il nazional-populismo. In contesti radicalmente diversi, la costante del 2024 sono le elezioni e le prime, cruciali, si sono già svolte: quelle a Taiwan.
Taiwan sotto i riflettori internazionali
In passato, le elezioni taiwanesi non riscuotevano grande interesse. D’altronde Taiwan è un Paese relativamente piccolo, con 23 milioni di abitanti, e non è riconosciuto come Stato dalla stragrande maggioranza dei Paesi nel mondo. Fino a poco tempo fa, erano 13 gli Stati che riconoscevano Taiwan, per lo più piccoli Stati dell’America centrale e del Pacifico. L’ultimo ad averlo disconosciuto, su pressione di Pechino, è Nauru e la lista è destinata a rimpicciolirsi ulteriormente. Inoltre, le elezioni non hanno avuto grandi colpi di scena. Come anticipato, il candidato del Partito democratico progressista (Dpp) Lai Ching-te ha vinto le presidenziali a Taiwan. Inoltre, è interessante notare come, nonostante la vittoria, il Dpp abbia perso la maggioranza in parlamento e sia costretto a governare cercando il consenso anche dei partiti di opposizione: il partito nazionalista Kuomintang (Kmt) e il nuovo partito del popolo di Taiwan (Tpp). Insomma, nulla di sensazionale.
Eppure gli occhi di tutti sono e rimangono puntati su Taiwan. C’è chi teme che la vittoria di Lai, inviso a Pechino, alzi il rischio di uno scontro. Con le guerre in corso in Ucraina e Medio Oriente, esiste la minaccia imminente di un nuovo fronte aperto a Taiwan, in quella che Papa Francesco ha saggiamente definito la “Terza guerra mondiale a pezzi”?
C’è un vero rischio di escalation?
a Taiwan c’era e rimane. Sebbene se ne sia parlato meno dopo l’escalation innescata nell’estate 2022 dalla visita dell’allora speaker della Camera Usa Nancy Pelosi e dalle rappresaglie militari cinesi che vi fecero seguito – incluse esercitazioni attorno all’isola e la sospensione del dialogo militare con Washington –, il livello di allerta su Taiwan non si è mai veramente abbassato. Al contrario, durante la campagna elettorale, Taipei ha ripetutamente accusato Pechino di interferire nelle elezioni, anche attraverso un’aggressiva campagna di disinformazione, e di aver fatto sorvolare diversi palloni spia sull’isola. Infatti, Pechino ha criticato apertamente Lai e non ha mai nascosto le sue preferenze per Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, più vicino alle istanze della Repubblica popolare. Nel suo tradizionale discorso di fine anno, il presidente cinese Xi Jinping ha, inoltre, definito l’unificazione con Taiwan uno “sviluppo inevitabile”. Le parole di Xi hanno riproposto una posizione sempre più marcata da parte di Pechino, ma pronunciate a poche settimane dal voto a Taiwan hanno assunto una dimensione ancora più infausta. Ora che Lai ha vinto, con oltre il 40% dei voti, c’è chi teme che le minacce di Pechino si traducano in realtà.
Che la questione di Taiwan sia sulla china dell’escalation è chiaro, ma ciò non vuol dire che la vittoria di Lai debba segnare uno spartiacque verso una guerra aperta. Il Dpp è alla sua terza vittoria consecutiva. Da un lato, questo indica che il popolo si identifica sempre più come taiwanese (e non cinese), rifiutando un futuro dell’isola integrato con la Repubblica popolare. Avendo visto cosa significa la reintegrazione nel caso di Hong Kong, sorprende poco che i taiwanesi rifuggano una prospettiva simile. Dall’altro lato, questa terza vittoria del Dpp significa che poco cambia rispetto alla gestione degli ultimi anni. Tant’è che nell’ultimo mandato, Lai era vicepresidente, numero due della leader uscente Tsai Ing-Wen.
In sintesi, se il conflitto a Taiwan rischia l’escalation, così è dalla prima vittoria del Dpp nel 2016, non certo da ieri. A questo si aggiunge il fatto che il nuovo leader, al pari della presidente uscente, nei suoi discorsi non invoca l’indipendenza dell’isola, ben sapendo che un tale scenario comporterebbe una guerra contro la Cina, bensì insiste sul mantenimento dello “status quo”. Nell’intervento pronunciato in seguito alla vittoria, Lai Ching-te, pur ribadendo la determinazione di salvaguardare Taiwan dalle minacce e intimidazioni cinesi, ha usato toni pacati, assumendosi le sue responsabilità nell’assicurare la pace e stabilità nello Stretto e dichiarandosi aperto al dialogo con Pechino su basi paritarie. Questo sullo sfondo di una relativa distensione nei rapporti tra Washington e Pechino, incoronati dal vertice tra Joe Biden e Xi Jinping a San Francisco nel novembre scorso e dalla riattivazione del dialogo militare tra le due superpotenze.
La reazione di Pechino
Le elezioni taiwanesi probabilmente vedranno una relativa inversione di rotta nel clima di distensione. Il disconoscimento di Taiwan da parte del Nauru, su pressione cinese, è avvenuto non a caso dopo le elezioni. È evidente che il negoziato tra Cina e Nauru si era concluso prima e che Pechino abbia voluto aspettare l’esito delle elezioni – che probabilmente aveva previsto – per alzare la pressione politico-diplomatica su Taipei. Il governo cinese probabilmente alzerà anche il tiro con una crescente coercizione economica e, magari non immediatamente, anche una maggiore pressione militare sull’isola. Il problema a Taiwan, insomma, rimane. Con la crescente assertività della Cina in Asia e nel mondo, è Pechino che ormai rifiuta lo “status quo”, regolarmente evocando l’unificazione tra terraferma e isola, se necessario attraverso l’uso della forza. La minaccia di una guerra c’era prima e continua a esserci. Ma se dovesse concretizzarsi, ce ne accorgeremmo dai preparativi cinesi molti mesi prima. In ogni caso, è improbabile che si concretizzi prima di tre o quattro anni, dando il tempo alla deterrenza e al dialogo, se efficaci, di scongiurarla.