Il referendum autoritario che vuole cambiare la Costituzione tunisina

Il prossimo 25 luglio, nel giorno in cui si festeggia la proclamazione della Repubblica di Tunisia, il popolo tunisino sarà chiamato ad esprimersi sulla nuova Costituzione. Una data importante: esattamente un anno prima, infatti, il Presidente Saïed aveva sospeso le attività parlamentari e aveva dato inizio a un rapido e inarrestabile processo di accentramento di poteri che trova nel nuovo dettato costituzionale un grandioso epilogo.

Il Paese che un tempo aveva rappresentato il più virtuoso modello delle Primavere Arabe è ormai protagonista di una preoccupante virata autoritaria finora promossa a colpi di decreti presidenziali, che – sotto lo scudo dello stato di emergenza – hanno lentamente corroso l’indipendenza dei poteri dello Stato (con lo scioglimento del Consiglio Superiore della magistratura a febbraio e del Parlamento a marzo), ma che potrebbe ora istituzionalizzarsi con l’adozione di un nuovo testo costituzionale.

Revisione costituzionale non inclusiva

Il 30 giugno scorso Saïed ha reso noto il testo su cui i cittadini saranno chiamati a votare, la cui pubblicazione ha, tuttavia, provocato la reazione sbigottita di Sadok Belaid, a capo della commissione nominata dal Presidente per la stesura del nuovo dettato e dunque suo supposto artefice. Belaid ha, infatti, disconosciuto il testo pubblicato perché lontano dalla bozza elaborata in commissione.

Esso contiene, a ben guardare, 46 emendamenti personalmente introdotti da Saïed che, secondo Belaid, potrebbero aprire le porte ad un regime dittatoriale. Il Presidente, per tutta risposta, ha indirizzato al popolo tunisino una lettera dal forte contenuto emotivo invitandolo a sostenerlo nella lotta contro i “nemici”, attingendo, dunque, nuovamente a quella retorica populista e divisiva che etichetta qualsiasi oppositore politico come traditore. Del resto, anche di fronte alle perplessità espresse dalla Venice Commission circa l’assenza delle precondizioni necessarie per un processo costituzionale, la replica di Saïed era stata piuttosto impetuosa: non solo aveva minacciato di ritirare la membership tunisina, ma aveva dichiarato la Commissione come “persona non grata” in Tunisia qualificandone l’operato come una sfacciata e inaccettabile interferenza.

La nuova Costituzione, se promossa, andrà a sostituire il testo del 2014. Tuttavia, il processo retrostante non potrebbe essere più diverso dagli eventi che negli anni 2011-2014 portarono l’assemblea costituente ad approvare a larga maggioranza la vigente Costituzione, dopo un faticoso ma magistrale sforzo di compromesso tra le parti. “Noi, il popolo tunisino”, così esordisce il nuovo testo; ma quello stesso popolo di cui Saïed dichiara di farsi interprete sembra essere stato paradossalmente del tutto escluso, con il Presidente e una cerchia ristretta di nominati che hanno lavorato al testo rifuggendo il dialogo pubblico, senza i principali partiti politici (che pianificano per questo un boicottaggio) e la società civile. L’assenza di un processo inclusivo unita al rischio di una bassa partecipazione popolare (come già successo nella consultazione online lanciata nel mese di gennaio) pone interrogativi sulla legittimità e credibilità di un referendum, privo di quorum che si terrà oltretutto in assenza di osservatori stranieri.

Accentramento dei poteri e iperpresidenzialismo

All’indomani del voto, la Tunisia potrebbe risvegliarsi in un sistema iperpresidenzialista dai caratteri cupamente autoritari. Il nuovo testo, infatti, potenzia notevolmente la Presidenza, conferendole significativi poteri senza tuttavia prevedere chiari meccanismi correttivi e di controllo. Il Presidente esercita il potere esecutivo ed è assistito da un governo da lui nominato che, tuttavia, non sarà portato in Parlamento per ottenere la fiducia; presenta leggi al Parlamento, nomina i giudici.

Nell’assenza totale di una separazione dei poteri, il Parlamento risulta fortemente ridimensionato e – per così dire – declassato. Il passaggio al bicameralismo non è ben delineato lasciando incertezze e dubbi sul funzionamento di un organo che, nel migliore dei casi, risulterà farraginoso ed inefficiente ma, nel peggiore, si limiterà ad approvare le decisioni del Presidente. La democrazia dal basso tanto invocata da Saïed rischia, dunque, di tradursi in un sistema caratterizzato da una progressiva marginalizzazione dei partiti politici e affetto da una preoccupante macrocefalia presidenziale.

Consapevoli di tale rischio, i partiti politici tunisini hanno ripetutamente criticato l’accentramento autoritario dei poteri operato da Saïed a partire dal 25 luglio scorso e vi si sono opposti in maniera attiva ma con scarsi risultati. Da una parte, essi hanno lanciato campagne di mobilitazione interne fuori dal Parlamento, alcune delle quali sono culminate in proteste e manifestazioni represse con la forza. Dall’altra,  hanno cercato di sensibilizzare i membri del Parlamento europeo (trovando, in particolare, interlocutori nelle commissioni Affari esteri e Diritti umani) circa i rischi della de-democratizzazione tunisina. Mentre solo tre partiti minori stanno facendo campagna per il ‘sì’ nel prossimo referendum, i maggiori partiti di opposizione tunisini hanno indirizzato una lettera al capo della diplomazia europea, Josep Borrell, invitando l’Unione europea (Ue) a giocare un ruolo più attivo nei confronti di una crisi che rischia di destabilizzare il Paese e tutta la regione.

Ue assente o compiacente?

La Commissione europea e i rappresentanti del Servizio europeo di azione esterna (Seae) hanno perso numerose occasioni per mandare un chiaro messaggio di condanna nei confronti delle misure adottate dal Presidente Saïed. L’Ue ha investito in maniera ingente, sia finanziariamente sia dal punto di vista simbolico, nella transizione tunisina fin dalle sue prime battute all’indomani della rivoluzione dei gelsomini di inizio 2011. Una certa inerzia burocratica e istituzionale, unita a un interesse decrescente per i temi del supporto alla democrazia in tempi recenti, ha reso Bruxelles assente e, secondo una larga fetta dell’opinione pubblica tunisina stessa, compiacente nei confronti dello smantellamento della democrazia operato da Saïed.

Non più tardi di fine marzo, in occasione di una visita in Tunisia del Commissario all’Allargamento Oliver Varhelyi, la Commissione europea aveva annunciato un nuovo prestito di 450 milioni di euro a Tunisi. Con l’approfondimento della crisi economica, l’aumento della povertà e della disoccupazione, aggravate dalla pandemia e ora dalle ripercussioni della guerra in Ucraina (in particolare dal drammatico aumento dell’inflazione dei prodotti alimentari), l’Ue sembra essere innanzitutto (o esclusivamente) preoccupata del rischio di mancata tenuta dell’economia tunisina piuttosto che dell’involuzione del processo politico virtuoso iniziato nel 2011. Questo atteggiamento pragmatico miope e controproducente rischia di subire un brusco risveglio il prossimo 25 luglio e nelle settimane, a venire quando potrebbe essere troppo tardi se non per celebrare il funerale della ormai defunta democrazia tunisina.

Foto di copertina EPA/MOHAMED MESSARA

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