Le potenzialità dell’integrazione differenziata europea

Un processo lineare e irreversibile di integrazione uniforme tra tutti i Paesi membri: è così che nei decenni passati è stato spesso rappresentato il percorso di integrazione a livello europeo. In realtà, specialmente dagli anni Ottanta in avanti, la storia dell’integrazione europea è stata caratterizzata da una crescente differenziazione: ciò sia per venire incontro a richieste specifiche di alcuni Paesi membri, come Danimarca e Regno Unito, concedendo deroghe che hanno permesso di evitare stop e veti di varia natura; sia per consentire al processo di integrazione di procedere in alcuni ambiti particolarmente sensibili, come nel caso dell’abolizione dei controlli alle frontiere interne con gli accordi di Schengen; sia ancora per garantire una certa gradualità del processo in occasione delle varie ondate di allargamento, come quella che ha coinvolto numerosi paesi dell’Europa centrale e orientale negli anni Duemila.

Le diverse forme di integrazione

Nel corso dei decenni, il quadro del processo di integrazione si è andato differenziando anche da altri punti di vista. Nei suoi rapporti con l’esterno, per esempio, la Comunità economica europea ha iniziato a definire sin dagli anni Settanta del secolo scorso una varietà di modalità di accesso al mercato unico e di accordi di associazione per paesi terzi al di sotto della soglia di una piena membership. A queste forme di differenziazione in ambito economico si sono aggiunte più di recente modalità di cooperazione differenziata meno formalizzate in altri settori, come quello del controllo e della gestione dei flussi migratori.

In materia di politica estera, singoli paesi o gruppi di paesi dell’Unione hanno gestito dossier particolarmente spinosi, coordinandosi costantemente con le istituzioni europee: per esempio, il cosiddetto E3 (Francia, Germania e Regno unito) nelle negoziazioni per un accordo sul nucleare iraniano; ma anche il Formato Normandia, che ha visto il coinvolgimento di Francia e Germania a fianco di Russia e Ucraina nei negoziati che hanno fatto seguito allo scoppio della guerra del Donbass nel 2014.

Forme di integrazione più o meno formalizzate sono emerse anche a livello subnazionale: basta pensare alle numerose reti che sono state costituite da città e regioni interne ed esterne all’Unione volte a favorire processi di cooperazione e integrazione a livello territoriale (è il caso, per citarne soltanto una, della Alps-Adriatic Alliance) o riguardo a specifici ambiti di policy (in particolar modo quelli relativi alle questioni climatiche e ambientali: si pensi per esempio all’International Council for Local Environmental Initiatives).

Con il referendum sulla Brexit del 2016, infine, l’Ue ha dovuto affrontare un nuovo dilemma: come gestire il processo di uscita di un paese membro e come impostare i rapporti futuri tra l’Ue e un ex paese membro – andando così a definire un quadro di riferimento che ha implicazioni molto profonde sia per i rapporti all’interno dell’Unione sia per quelli con possibili nuovi stati membri.

L’integrazione differenziata è necessaria

L’integrazione differenziata può quindi essere considerata un tratto distintivo della storia dell’Unione europea – ed è estremamente probabile che continuerà ad esserlo negli anni a venire. La possibilità di definire assetti normativi e di governance differenziati sia all’interno dell’Ue sia verso l’esterno non rappresenta necessariamente un limite, ma può essere invece una risorsa per far fronte alle sfide future in maniera efficace e flessibile.

Proprio le potenzialità e le criticità dei processi di integrazione differenziata sono al centro del nuovo Special Issue di The International Spectator, a cura di Nicoletta Pirozzi, Matteo Bonomi e Sandra Lavenex. Sulla base di un’ampia analisi, i contributi raccolti nel fascicolo mettono in evidenza come l’integrazione differenziata sia non solo necessaria, ma anche desiderabile, nella misura in cui la flessibilità che garantisce è resa compatibile con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e dell’identità europea, sostenibile a livello di governance e accettabile per i governi e i cittadini sia dell’Unione, sia di eventuali paesi terzi coinvolti.

Affinché ciò sia possibile, nel definire i meccanismi di integrazione differenziata, l’attenzione va rivolta non solo alla dimensione normativa (cioè gli aspetti formali relativi agli accordi presi e agli attori coinvolti), ma anche a quella organizzativa e di governance (vale a dire il modo in cui le decisioni rispetto ai processi di integrazione differenziata vengono effettivamente prese e quindi applicate). Non si può prescindere, infine, dagli aspetti socio-politici: cioè dal modo in cui un’Europa differenziata viene percepita dai cittadini e dalle classi politiche dei Paesi membri. Da questo punto di vista, è fondamentale da un lato che i processi di integrazione differenziata siano coerenti con le più ampie narrative sull’integrazione e l’identità europea; e dall’altro che vengano introdotti dei meccanismi di accountability di varia natura che garantiscano la trasparenza dei processi decisionali e il coinvolgimento di tutti gli attori direttamente e indirettamente interessati, in modo da assicurare una piena legittimità democratica ai processi di integrazione differenziata.

The International Spectator è la rivista scientifica peer-reviewed in lingua inglese dello IAI curata da Daniela Huber e Leo Goretti.

Foto di copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ

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