Che il cambiamento climatico sia dannoso non è certo una scoperta rivoluzionaria. Eppure, mentre il dibattito occidentale spazia da argomenti prettamente tecnologici all’importanza della biodiversità, dall’altra parte del mondo i suoi effetti si sentono già da diversi anni.
È il caso della Nigeria, primo paese africano per demografia e sotto quasi ogni indice economico: 218 milioni di persone, 5 nascite per donna e un’intera economia in fase di transizione. Il risultato di una straordinaria combinazione di risorse naturali e demografiche, la garanzia di un accesso al mare e, soprattutto, una grande capacità della sua classe dirigente di diversificare un settore economico che vedeva nell’abbondanza di petrolio nel sud il grande rischio per cadere nella vecchia trappola centrafricana post-coloniale della “maledizione delle risorse”. Le grandi città come Lagos, Abuja e la zona urbana nel sud est stanno vivendo crescite economiche vertiginose, con grandi disuguaglianze ed effetti inaspettati, come lo sviluppo negli ultimi 15 anni di “Nollywood”, il primo vero movimento cinematografico interamente africano, divenuto leader nel continente e uno straordinario caso di studio per gli appassionati di storia del cinema in tutto il mondo.
Secondo un’altra legge del funzionamento globale, i grandi complessi urbani consumano un’enormità di cibo senza produrne: spetta alle campagne e alle zone rurali il compito di rifornire questi “pozzi senza fondo” composti da bar, locali, supermercati e cinema, che consumano ogni giorno quasi 4 chili di cibo per persona, secondo gli studi più recenti. La Nigeria dispone da sempre di una grossa fetta di terreno, più a nord della fascia urbanizzata sulla costa, che si definisce normalmente “sub-saheliana”. Lontana dalle temperature tropicali della costa, e appena sotto la fascia desertica nell’estremo nord del Paese, è qui che viene prodotto ciò che nutre la crescente popolazione nigeriana. La zona rurale attraversa tutto il Paese da ovest a est, con l’eccezione della capitale amministrativa Abuja, saggiamente posizionata per evitare un altro classico errore centrafricano che vede le capitali scollegate rispetto al resto della nazione (come accade, ad esempio, per Kinshasa in Congo).
Il conflitto armato tra allevatori e agricoltori in Nigeria
All’interno di questa fascia coesistono da secoli allevatori seminomadi (principalmente musulmani, distribuiti nelle zone a nord) e agricoltori, principalmente cristiani e prevalenti nel sud. La distribuzione dei territori è gestita da un misto di contratti di proprietà e tradizioni locali, che gestiscono le dispute demaniali ma soprattutto specificano per gli allevatori le modalità e tempistiche secondo le quali è lecito attraversare i territori degli agricoltori con le proprie mandrie, per spostarsi da un pascolo all’altro o dirigersi verso i mercati alimentari del sud. L’intero corpus giuridico su questi temi fu addirittura già riconosciuto e formalizzato dagli ex colonizzatori britannici con il termine di burti fin dai primi decenni dell’800.
Dalla fine degli anni ‘70 del XX secolo, la crescita economica nel sud del Paese ha progressivamente aumentato i ritorni sugli investimenti nel settore agroalimentare nigeriano. I primi a beneficiarne furono, ovviamente, le imprese agricole, ben più capaci dei gruppi di allevatori seminomadi di espandersi in territori precedentemente non occupati da coltivazioni. Al contempo, però, lo sviluppo di farmaci antivirali contro le malattie tropicali, che affliggevano il bestiame fino a qualche anno prima, permise agli allevatori di spingersi sempre più a sud con le loro mandrie, alla ricerca di pascoli meno desertici. Queste coincidenze storiche portarono al collasso del burti per via dei crescenti incentivi economici e, uniti all’esplosione demografica nigeriana di fine millennio, ha creato dalla fine degli anni ‘90 le condizioni per quello che oggi è a tutti gli effetti un conflitto armato tra allevatori e agricoltori, organizzati in bande armate coinvolte in cicli di attacchi e contrattacchi particolarmente complessi da interrompere.
L’emergenza islamista di Boko Haram
Il fenomeno si è ovviamente acuito negli ultimi anni per via del riscaldamento climatico, causa la desertificazione, la scarsità d’acqua e il conseguente impoverimento della qualità del terreno rimasto disponibile all’agricoltura che rende ancora più complessa la convivenza tra i due gruppi. Non va inoltre dimenticata l’emergenza islamista di Boko Haram nel nord-est del Paese, che rientra nel contesto delle insorgenze islamiche nel Sahel (di cui la Nigeria fa parte solo parzialmente), e che ha causato centinaia di migliaia di vittime e quasi tre milioni di sfollati.
Il terrore dell’infiltrazione del movimento estremista al di fuori del suo “feudo” nel nord-est del Paese contribuisce ad alimentare la tensione tra i gruppi, con la maggioranza cristiana dei coltivatori che non vede di buon occhio i movimenti dei rivali, principalmente appartenenti a etnie riconducibili al gruppo dei Fulani, di origini desertiche e cultura islamica, da sempre contrapposte ai gruppi Yoruba-Igbo del sud. La guerra nel nord-est del Paese ha anche ripercussioni pratiche, come la grandissima disponibilità di armi da fuoco e la creazione di bande e gruppi armati a protezione delle comunità, che finiscono per alimentare l’instabilità e far crescere la necessità di protezione armata anche per le comunità meno bellicose. In ultimo, il conflitto contribuisce da decenni a creare ondate di rifugiati che si riversano nella fascia sub-saheliana, alimentando l’impressione da parte dei locali stanziati di essere “invasi” dai loro confini settentrionali.
Le misure governative per limitare i conflitti
Il fronte etnico del problema può essere messo ulteriormente in prospettiva se si considera la storia dei confronti tra le differenti popolazioni del Paese, che vede i meridionali Yoruba-Igbo da sempre più coinvolti nella gestione dell’amministrazione fin dai tempi della colonizzazione britannica. Così come i primi a beneficiare dell’espansione economica furono gli agricoltori, la situazione pare ripetersi per quanto riguarda le misure prese dal governo centrale per limitare gli scontri tra i gruppi. Le soluzioni, infatti, convergono tutte verso quelle che gli allevatori accusano essere delle limitazioni al loro stile di vita, come il sempre più frequente obbligo di trasportare i capi di bestiame su mezzi a motore.
Il Piano nazionale per la trasformazione dell’allevamento del 2019 ha ulteriormente alimentato questa teoria, fornendo protezioni agli allevatori disponibili a trasferirsi in aree prefissate (chiamate “ranch”, all’americana), scatenando una protesta tra i pastori semi-nomadi. Le procedure per entrare a far parte dei ranch con il proprio bestiame, infatti, favoriscono la popolazione indigena, facendo sorgere accuse, sempre più frequenti, che l’intento del governo sia quello di insegnare ai coltivatori ad allevare, per limitare sempre più l’attività economica dei pastori Fulani, piuttosto che trovare una soluzione adeguata a entrambi gli stili di vita.
Questo genere di conflitto, diffuso in tutto il Sahel ma principalmente in Nigeria, non ha proporzioni numeriche sconvolgenti per quanto riguarda le vittime, soprattutto considerando la tragedia del conflitto con Boko Haram. Seppur con enormi difficoltà di calcolo, è improbabile che si siano superate le 60.000 vittime dall’inizio degli scontri, nei primi anni Duemila. A impressionare è l’enorme numero di sfollati: centinaia di migliaia solamente negli ultimi 10-15 anni in Nigeria, che si sommano a quelli provenienti dal nord-est creando enorme instabilità sia nel Paese che nei deboli stati limitrofi, anch’essi alle prese con l’impatto della jihad sulla sicurezza dei loro cittadini.
Questo conflitto rappresenta un’interessante opportunità per studiare più da vicino il comportamento di uno stato senza paragoni nel mondo per esplosività demografica ed economica, inserito in un contesto limitrofo di estrema violenza, povertà ed estremismo religioso. Per ora, il governo centrale ha deciso di limitare l’ingerenza delle forze armate nel territorio, scegliendo di affrontare la questione da un punto di vista legislativo per cercare di porre fine alle grandi transumanze di bestiame che sono spesso all’origine delle diatribe e per concentrarsi sul problema Boko Haram nel nord-est.
Un cambio di rotta, però, potrebbe avere conseguenze inaspettate, tenendo conto anche del panorama etnico nigeriano, come di consueto in un Centrafica frastagliato e spesso inconciliabile con le dinamiche di uno stato moderno.
di Ludovico Bianchi