Le nuove alleanze tra Asia orientale e il Golfo, oltre il commercio

Partner commerciali di primissima importanza, di cui monitorare con attenzione le dinamiche di sicurezza, sia a livello regionale che sistemico: è così che i paesi del Golfo vengono percepiti dalle grandi e medie potenze dell’Asia orientale e meridionale, come Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Singapore.

I dati sul commercio internazionale attestano in modo inequivocabile la fitta trama di rapporti che collega l’Occidente e l’Oriente asiatico: la Cina, ad esempio, nel 2020 è stata la principale destinazione dell’export iraniano, iracheno, saudita e omanita; il Giappone il primo acquirente dell’export qatariota, e l’India il secondo per le esportazioni saudite, irachene ed emiratine. A fronte di queste profonde interconnessioni economiche, che vanno ben oltre l’ambito energetico interessando tra gli altri anche l’industria delle costruzioni e i servizi, è rimasta invece limitata l’interazione sul piano della sicurezza: un trend che potrebbe però cambiare in ragione di un possibile disimpegno statunitense dal Medio Oriente.

Più Asia nel sistema di sicurezza del Golfo?

Proprio a un’eventuale ‘asianizzazione’ del sistema di sicurezza regionale del Golfo è dedicata una serie di articoli inclusi nel nuovo fascicolo (dicembre 2022) di The International Spectator.

Nei decenni passati, le potenze dell’Asia orientale e meridionale hanno potuto stabilire floridi rapporti commerciali con i paesi del Golfo anche grazie alle garanzie di sicurezza fornite dalla potenza egemone in Medio Oriente, gli Stati Uniti. Una possibile ‘ritirata’ statunitense dalla regione, e l’accresciuta instabilità che potrebbe derivarne, finirebbero per impattare sugli interessi economici dei grandi paesi dell’Asia orientale.

Come osserva Jonathan Fulton, India, Giappone, Singapore e Corea del Sud, in quanto alleati Usa, sarebbero portati a cercare di mantenere lo status quo, anche se difficilmente sarebbero disponibili a sostenere il peso principale degli equilibri regionali, dato che i rispettivi interessi di sicurezza risiedono altrove. Diverso il caso della Cina: nel contesto di una più ampia competizione con gli Stati Uniti, Pechino potrebbe essere tentata di espandere la propria presenza militare nel Golfo, anche se i segnali in questo senso sono al momento limitati.

A riprova della complessità del sistema di sicurezza regionale del Golfo per i paesi dell’Est asiatico, Yee-Kuang Heng analizza il caso più specifico della politica estera giapponese verso l’Iran, tradizionalmente una delle principali fonti di petrolio per Tokyo, sia pur in netto declino negli ultimi anni. Dagli anni della guerra tra Iraq e Iran sino alle recenti negoziazioni del Joint Comprehensive Plan of Action, il governo nipponico ha cercato di preservare la partnership con Teheran, sia pur prestando attenzione a non compromettere l’alleanza con Washington. Emblematica la posizione assunta dal governo Abe nel 2019 di fronte alle richieste dell’amministrazione Trump di partecipare alla coalizione navale (Operation Sentinel) destinata a pattugliare lo Stretto di Hormuz nel 2019: la marina giapponese è stata sì dispiegata nella regione, ma in maniera indipendente rispetto a Operation Sentinel e limitando le proprie operazioni al Golfo dell’Oman.

Diversa la posizione assunta dalla Corea del Sud, come ben evidenzia Hae Won Jeong: a inizio 2020, il governo di Seul ha infatti deciso di dispiegare la sua task force navale Cheonghae nella zona dello Stretto di Hormuz. La decisione, estremamente contestata nel paese, è stata giustificata ufficialmente con la necessità di tutelare la sicurezza dei 25 mila sudcoreani residenti in Medio oriente e di garantire la libertà di navigazione attraverso lo Stretto. Un’analisi più ravvicinata fa invece emergere la centralità del desiderio di cementare l’alleanza con Washington da parte dell’amministrazione del presidente Moon Jae-in, nell’ottica di poter ottenere maggior supporto sul cruciale dossier nordcoreano.

Lo stato delle relazioni Cina-Ue

Ai rapporti tra Ue e Cina sono invece dedicati i due articoli di Florian Trauner e Maria do Ceu Pinto Arena. Trauner, in particolare, si sofferma sull’impatto che le draconiane misure anti-Covid imposte da Xi Jinping hanno avuto sui rapporti tra Bruxelles e Pechino. I dati sono impressionanti: oltre al prevedibile crollo dei flussi turistici, la strategia estremamente restrittiva adottata da Xi ha spinto già nel primo anno della pandemia quasi la metà dei cittadini Ue residenti nella Repubblica popolare ad andarsene, mentre le aziende europee operanti in loco si vedevano costrette ad assumere staff locale o spostare le proprie operations online.

Le conseguenze, osserva Trauner, potrebbero essere di lungo periodo: a una riduzione delle interazioni interpersonali potrebbe corrispondere una frenata negli scambi di expertise e conoscenza. Inoltre, l’estremo rigore adottato unilateralmente dalle autorità cinesi ha rafforzato la percezione di un’asimmetria nei rapporti tra l’Ue e la Repubblica popolare, stavolta non più limitata ai rapporti economici, ma anche a quelli interpersonali.

La posizione di un piccolo paese europeo come il Portogallo di fronte alle tensioni tra Usa, Ue e Cina è invece al centro del contributo di do Ceu Pinto Arena. Dalla crisi finanziaria del 2008 in avanti, il Portogallo ha stabilito rapporti economici molto stretti con Pechino, culminati nella firma di 17 memoranda of understanding bilaterali nel dicembre 2018, che abbracciavano ambiti particolarmente strategici come quello energetico e l’introduzione della tecnologia 5G nel paese. La penetrazione cinese in settori chiave dell’economia portoghese ha provocato però dure reazioni da parte statunitense, di fronte a cui il governo di Lisbona ha adottato una politica pragmatica: nel caso del 5G, ad esempio, le aziende di telecomunicazioni portoghesi hanno infine deciso di non adottare la tecnologia cinese, sia pur spiegando la scelta con motivazioni commerciali.

L’Europa centro-orientale dopo il 1989 e la Libia post-Gheddafi

Qual è l’idea di Europa predominante nei paesi dell’Europa centrorientale? A questo interrogativo cerca di dare risposta Ostap Kushnir, analizzandone l’evoluzione dagli anni Ottanta a oggi. Negli ultimi decenni di dominazione sovietica, in Europa orientale si affermò un’idea di Europa che coincideva sostanzialmente con i paesi della parte occidentale del continente, in contrapposizione al modello socialista. Negli anni Novanta, i paesi del blocco ex sovietico attraversarono una fase di ricerca delle proprie rispettive identità nazionali, a scapito della nascita di una chiara identità collettiva subregionale.

Negli ultimi due decenni, sono infine emerse diverse concezioni di Europa nei paesi dell’ex blocco sovietico, in cui si mescolano eccezionalismo, universalismo e transatlantismo. Per capire questa traiettoria, secondo Kushnir, è essenziale riconoscere come i paesi dell’Europa centrorientale si siano trovati a dover condividere una rappresentazione di sé dell’Europa che è fondata intrinsecamente sulla storia della parte occidentale del continente, ma che non corrisponde alle esperienze e alla memoria dei paesi dell’ex blocco sovietico.

Alla politica russa nei confronti del proprio ‘vicinato’ dagli anni Novanta sino alla guerra in Ucraina è invece dedicato il contributo di Vasile Rotaru. Rotaru si concentra specificamente sull’approccio tenuto da Mosca nei confronti dei movimenti secessionisti degli anni Novanta (in Abkhazia, Ossezia del Sud e in Transnistria) e dopo il 2008 (in Crimea e nel Donbass). Già nei primi anni dopo la caduta dell’Urss, emerse all’interno delle classi dirigenti russe una corrente favorevole all’intervento nei paesi vicini sulla base di presunte considerazioni “umanitarie”, come il rischio di “genocidio” nei confronti delle minoranze, inclusi i “russi etnici”. Questa narrazione, promossa specialmente dalla burocrazia militare postsovietica, venne parzialmente frenata dalla presenza di spinte centrifughe anche in Russia (è il caso della Cecenia), ma ha ritrovato vigore sotto la leadership putiniana, specie dal 2008 in avanti, venendo integrata da nuovi argomenti, come quello della “responsibility to protect” o il richiamo al precedente della guerra in Kosovo.

Infine, la guerra civile in Libia dopo la caduta del regime di Muhammar Gheddafi è al centro del contributo di Alessia Melcangi e Karim Mezran. Il conflitto nel paese è stato spesso descritto come una specie di “guerra per procura” condotta da attori locali al servizio di potenze esterne, come la Russia, la Turchia, l’Egitto e la Francia. Secondo gli autori, si tratta di una lettura che tende a sottovalutare i margini di manovra delle milizie locali: sfruttando in maniera estrattiva le risorse garantite dal rentier state libico, queste forze si sono dimostrate in grado di agire in maniera autonoma, cambiando anche repentinamente fazione. Solo tenendo adeguatamente in considerazione questa autonomia delle forze sul terreno sarà possibile riattivare un processo di pace che non sia strutturalmente fragile.

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