Nancy Pelosi a Taiwan: fine dell’ambiguità strategica Usa?

Dopo giorni di smentite e conferme, Nancy Pelosi – speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti – è atterrata a Taipei. Come prevedibile, la decisione di Pelosi di includere Taiwan nel suo tour dell’Asia-Pacifico è stata accolta dalla Cina come una provocazione inaccettabile.

Il ‘vincolo Usa’ nell’Indo-Pacifico

Dal punto di vista di Pechino infatti la visita ufficiale della terza carica più alta degli Stati Uniti (dopo presidente e vice-presidente) contrasta con le premesse della politica dell’ “unica Cina” (One China policy) in base alla quale gli Usa riconoscono la Repubblica popolare come autentica espressione della Cina, pur continuando a sostenere l’autonomia (non l’indipendenza) di Taiwan.

Oltre alle dichiarazioni di condanna da parte di ministero degli Esteri cinese, la reazione più significativa è arrivata dall’Esercito popolare di Liberazione, che ha annunciato una serie di esercitazioni per tutto il corso della settimana. Le manovre militari avverranno in sei zone aeree e marittime adiacenti all’isola, in alcuni casi in violazione delle acque territoriali taiwanesi. C’è già chi ha definito questa come la quarta crisi dello stretto, dopo quelle del 1956, del 1958 e del 1996.

La visita di Pelosi contribuirà senz’altro a peggiorare ulteriormente il clima di tensioni tra Washington e Pechino. Ciononostante, non si tratta di un momento di rottura quanto di continuità col recente passato. Si dall’inizio del suo mandato Joe Biden ha dato prova di voler mantenere la linea dura nei confronti di Pechino iniziata da Trump. Biden ha più volte descritto la relazione tra Usa e Taiwan in termini che contrastano con la studiata “ambiguità strategica” adottata dagli Usa per quarant’anni, in base alla quale gli Usa lasciavano un margine di incertezza circa la risposta a un eventuale tentativo di Pechino di riunificare Taiwan alla terraferma con la forza.

Ad agosto dello scorso anno Biden ha paragonato il vincolo di difesa collettiva del Trattato Nato agli obblighi presi con gli alleati asiatici, compresa Taiwan. In ottobre ha esplicitamente detto che in caso di aggressione armata cinese gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in difesa dell’isola. Queste dichiarazioni sono poi state ammorbidite dal Segretario di Stato Anthony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, i quali hanno ribadito l’impegno degli Stati Uniti a rispettare la politica dell’Unica Cina e garantire della pace nello Stretto. Lo stesso valzer si è ripetuto questa volta. A luglio Biden ha detto che la visita di Pelosi non sarebbe stata “una buona idea” ma aveva difeso – tramite le parole di Blinken – l’autonomia di un membro del Congresso.

I tre motivi di Joe Biden

Alla luce di quest’ultima “provocazione” – volendo usare i termini cinesi – sorge il dubbio che quelle che nei mesi passati erano state interpretate come gaffe siano in realtà chiari messaggi volti a segnalare lo scostamento dall’ambiguità strategica. Se è davvero questo il caso, quale sarebbe lo scopo di tale decisione? Ci possono essere almeno tre motivi.

In primo luogo la scelta di Biden può essere vista come una risposta alla crescente pressione di Pechino su Taipei. Più volte il presidente Xi Jinping ha definito come inevitabile la riunificazione, un processo che non esclude l’uso della forza qualora Pechino non ritenga possibile un ricongiungimento pacifico. Rendere meno ambigua la posizione di Washington serve a segnalare alla Cina che gli Stati Uniti sono pronti ad intervenire direttamente per salvaguardare l’autonomia dell’isola.

La seconda motivazione, che non esclude la prima, è quella di portare la sfida sistemica con la Cina su un campo in cui gli Stati Uniti si sentono più sicuri, ovvero quello del confronto militare. Questo non vuol dire che Biden sia intenzionato a scatenare una guerra. Mentre la Cina muove la sua sfida in ambiti in cui si sente di poter avere un vantaggio comparato – come ad esempio le tecnologie di frontiera – gli Stati Uniti sanno di avere ancora un margine enorme a livello militare per poter imporre le proprie condizioni. Lo scopo può essere dunque quello di ricordare a Pechino che nello scontro tra grandi potenze il fattore militare è una variabile imprescindibile e che gli Usa sono ancora in (netto) vantaggio su quel fronte.

Il terzo motivo può essere quello di compattare ulteriormente il fronte con i propri alleati continuando ad inquadrare la competizione della Cina in una contrapposizione tra opposti sistemi di valori. Come annunciato da Pelosi al suo arrivo a Taipei “la solidarietà con Taiwan è importante oggi più che mai, mentre il mondo si appresta a dover scegliere tra autocrazia e democrazia”. Queste parole sono in linea con le diverse iniziative lanciate nel corso dell’ultimo anno e mezzo da Biden per rafforzare il sistema di alleanze statunitense anche insistendo sulla dicotomia tra autocrazie e democrazie. Poco importa se questo scopre il fianco alle accuse di incoerenza per via dei rapporti privilegiati che gli Stati Uniti accordano a paesi tutt’altro che rispettosi dei diritti universali. L’amministrazione Biden è convinta che giocare la carta dei valori possa essere un modo per aumentare l’appeal della partnership con gli Stati Uniti e al contempo giustificare ai propri concittadini le proprie scelte in termini si politica estera.

L’autunno caldo nell’Indo Pacifico

Usa e Cina si avviano verso un autunno caldo sul piano interno e spingere sul pericolo esterno potrebbe essere funzionale per entrambi i paesi. Ad inizio novembre Biden dovrà affrontare le elezioni di metà mandato e i sondaggi danno i democratici largamente sfavoriti, soprattutto alla Camera. Dare centralità alla politica estera, facendo leva sulla minaccia di Russia e Cina, può servire a spostare qualche voto. Sempre nello stesso periodo, a Pechino, Xi sarà impegnato con il XX Congresso del Partito. Si tratta di un appuntamento cruciale in quanto Xi dovrebbe vedere esteso (a vita?) il suo mandato di Segretario generale del Partito Comunista. Xi ha poco da temere ma di certo la catastrofica gestione della politica “zero-covid” pesa sul bilancio di questo suo ultimo quinquennio. Anche nel suo caso, alimentare lo scontro con Washington sarebbe un ottimo modo per distogliere l’attenzione da eventuali voci critiche.

In conclusione, che fosse concordata o meno con la Casa Bianca, la visita di Pelosi è solo l’ultimo tassello di una partita tra grandi potenze. Non sarà l’ultimo. Ma non è ancora il caso di una escalation incontrollata perché né gli Usa né tantomeno la Cina vogliono uno scontro. Per il momento, si tratta di gestire una competizione i cui costi – almeno nel breve periodo – saranno tutti a carico di Taipei.

Foto di copertina EPA/HANDOUT/ TAIWAN PRESIDENTIAL OFFICE

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