Missili e pandemia: la ricetta di una nuova crisi nella penisola coreana

Il 5 giugno 2022, la Corea del Nord ha lanciato nel Mar del Giappone otto missili balistici, l’ultimo di una lunga serie di test che il regime ha condotto dall’inizio dell’anno. Come illustrato in un recente IAI commentary, mentre l’interesse mondiale ruota attorno all’invasione russa in Ucraina, la penisola coreana sta lentamente scivolando verso una nuova e pericolosa escalation militare.

Appurato il fallimento delle negoziazioni sulla denuclearizzazione – di fatto in stallo dal Vertice di Hanoi del 2019 tra Donald Trump e Kim Jong-un – tutti gli attori coinvolti sembrano avere perso la fiducia (e la volontà) di trovare una soluzione diplomatica nel breve periodo.

Pyongyang verso un nuovo test atomico

Gli ingredienti per una nuova crisi sul 38° parallelo ci sono già tutti. Pyongyang ha di fatto abbandonato da circa un anno la moratoria sui test che era stata accordata nel 2017 e sfruttando la distrazione data prima dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina, il regime ha continuato la corsa verso il perfezionamento del proprio arsenale balistico. Oltre a questo, le immagini satellitari mostrano una ripresa delle attività nel sito di Punggye-ri – zona adibita ai test nucleari – il che rende sempre più probabile che la Corea del Nord si stia preparando ad un nuovo test atomico (il primo dal 2017).

Sul fronte opposto, gli Stati Uniti di Biden hanno dimostrato di non avere una vera e propria strategia con la quale approcciare il dossier coreano. Con un’agenda in politica estera occupata nella sua totalità dalle sfide provenienti da Russia e Cina, l’unica opzione per Biden è stata quella di rispolverare la pazienza strategica di Obama fatta di sanzioni e poca flessibilità diplomatica.

A chiudere il cerchio e a complicare ulteriormente la questione c’è poi la posizione della nuova amministrazione in Corea del Sud, guidata dal Presidente Yoon Suk-yeol, il quale ha più volte rimarcato la sua intenzione di abbandonare la politica conciliatoria portata avanti dal suo predecessore.

L’emergenza Covid-19 in Corea del Nord

Non sono tuttavia solamente i missili o la mancanza di iniziative diplomatiche a rendere sempre più instabile la penisola coreana e potenzialmente l’intera regione. Contemporaneamente alle crescenti tensioni militari, la Corea del Nord rischia infatti di andare incontro ad una severa crisi sanitaria. Dopo due anni spesi a negare la possibilità di contagi all’interno del paese, il 12 maggio il regime ha registrato ufficialmente il suo primo focolaio esteso di Covid-19.

La notizia ha provocato un certo allarme a livello internazionale: il sistema sanitario nordcoreano versa in condizioni disastrose da diversi decenni – ed è dunque impreparato ad affrontare una sfida del genere – e la totalità della popolazione nel Paese non è stata ancora vaccinata. Il regime infatti ha fino ad ora sempre rifiutato le offerte di invio di vaccini anti-covid da parte di Stati Uniti, la Corea del Sud, dall’Organizzazione  Mondiale della Salute, e dall’iniziativa Covax.

Nonostante le autorità nordcoreane abbiano affermato di essere riuscite ad arginare con successo l’epidemia, la diffusione incontrastata del Covid nel paese rimane un fattore di rischio di portata globale. In primo luogo, oltre che a portare ulteriori sofferenze alla popolazione locale, l’aumento dei contagi tra un così grande numero di non vaccinati può facilitare la fuoriuscita di nuove mutazioni, con conseguenti ricadute a livello globale. In secondo luogo, la mancanza di volontà da parte del regime di accettare aiuti da organizzazioni internazionali e paesi considerati ostili, come Stati Uniti e Corea del Sud, potrebbe non lasciare altra soluzione a Pyongyang se non quella di accrescere la propria dipendenza dal supporto cinese e russo.

Il “critical engagement” di Bruxelles

Lo stallo nei negoziati, la nuova corsa agli armamenti e lo spettro di una nuova crisi sanitaria, sono tutti fattori che dovrebbero portare l’Unione Europea a rivedere drasticamente il proprio approccio alla questione coreana. L’attuale strategia di Bruxelles verso la Corea del Nord è basata – almeno sulla carta – sul concetto di “critical engagement”, ovvero la combinazione di dialogo e sanzioni unilaterali.

I fatti in realtà dimostrano che anche in un periodo di massima distensione tra Seoul e Pyongyang – come era stato quello tra il 2017 e il 2019 – la strategia dell’Ue non è mai andata oltre l’imposizione di sanzioni, con poche iniziative concrete volte ad aprire nuovi canali diplomatici.

Questo approccio basato unicamente sulle sanzioni non ha avuto come solo effetto quello di irrigidire ulteriormente i già precari rapporti tra Bruxelles e Pyongyang. Anche se le sanzioni europee – così come quelle dell’Onu – prevedono eccezioni per progetti di assistenza umanitaria, esse finiscono spesso per imporre indirettamente barriere legali, finanziarie, e amministrative che ne impediscono l’implementazione. Ritardi nell’invio di beni di prima necessità, limitazioni alle attività di monitoraggio, mancanza di strumenti per permettere il finanziamento dei progetti, sono solo alcuni dei numerosi problemi che le organizzazioni non-governative si ritrovano a dover affrontare per poter operare nel paese.

Una nuova strategia europea?

Qualcosa tuttavia starebbe cambiando. Secondo fonti interne alla Commissione, a Bruxelles si starebbe discutendo l’eventualità di sviluppare una soluzione ad hoc – simile allo strumento a sostegno degli scambi commerciali (INSTEX) creato per facilitare le transazioni con l’Iran – che permetta di evitare che gli aiuti umanitari vengano indirettamente bloccati dalle sanzioni. Questa soluzione avrebbe tre obiettivi principali: diminuire i costi e le procedure burocratiche per le Ong che intendono operare nel paese; dare maggiori garanzie a donatori e fornitori sulla possibilità di finanziare e supportare tali progetti; creare esenzioni speciali per l’invio di materiali essenziali – come le attrezzature mediche o gli strumenti agricoli – attualmente bloccati dalle sanzioni.

Un’iniziativa del genere avrebbe ovviamente come primo scopo quello di prevenire l’ennesima tragedia umanitaria nella storia del paese e aiuterebbe ad alleviare le sofferenze di una popolazione vessata da decenni da numerose crisi. In secondo luogo, darebbe la possibilità all’Ue di trovare il giusto punto di partenza per poter rafforzare il suo ruolo di potenza mediatrice nella regione.

La Commissione Europea ed il Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas) sperano che tale iniziativa possa aprire una nuova finestra di dialogo con il regime che potrebbe essere sfruttata per discutere temi ben più delicati come quello della non-proliferazione nucleare. Le potenziali ricadute di una tale apertura potrebbero essere fondamentali per facilitare l’avvio di una de-escalation in un quadrante, quello del nord-est asiatico – sempre più segnato dalla pericolosa polarizzazione che vede contrapposti Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone da una parte e Cina e Russia dall’altra.

Foto di copertina EPA/KCNA EDITORIAL USE ONLY

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