Loss and damage: c’è speranza per la finanza climatica?

Tra il 27 e il 29 marzo si è tenuto il primo incontro del Comitato Transizionale per l’istituzione di un fondo adibito alle perdite e i danni causati dal cambiamento climatico.

Lo scorso novembre, a Sharm-el-Sheik, la ventisettesima Conferenza delle Parti (COP27) aveva un grande potenziale per essere una “COP Africana“, capace di inserire all’apice dell’agenda dei negoziati i dossier più importanti per il continente e altre regioni in via di sviluppo, in primis il tema della giustizia climatica, ossia la responsabilità dei Paesi sviluppati di sostenere finanziariamente i Paesi in via di sviluppo, più vulnerabili agli effetti del surriscaldamento globale, alla luce del limitato contributo di quest’ultimi al cambiamento climatico.

Tuttavia, la belligeranza russa in Ucraina e la conseguente crisi energetica hanno fissato le priorità dei governi sui temi della sicurezza energetica, con il rischio che gli obiettivi di decarbonizzazione venissero messi in ombra e rinforzassero la posizione negoziale dei paesi produttori di combustibili fossili; in più, questioni parallele come le elezioni di midterm americane e le controversie circa i Mondiali in Qatar hanno tolto spazio mediatico agli svolgimenti in seno alla Conferenza.

In questo contesto, ciò che i Paesi emergenti hanno potuto raggiungere è stato l’accordo per l’istituzione di un fondo assegnato alla riparazione delle perdite e dei danni causati dai mutamenti climatici, il cosiddetto loss and damage.

Loss and Damage

Terzo pilastro delle politiche climatiche, insieme a mitigation (riduzione delle emissioni) e adaptation (prevenzione degli effetti del cambiamento climatico), loss and damage è un termine utilizzato dalle Nazioni Unite (UN) per indicare le perdite e i danni causati e non rimediabili del cambiamento climatico. Questi possono essere di carattere economico e non-economico: nel primo caso, sono inclusi il danneggiamento di risorse, beni e servizi commerciali; nel secondo, la perdita di culture e modi di vivere, la morte di persone, e la necessità di migrare.

I Paesi sviluppati, nel corso dei negoziati climatici degli ultimi decenni, si sono fortemente opposti alla logica che li identifica come i responsabili dei danni e le perdite causate dal cambiamento climatico, preoccupati che ciò si potesse tradurre in compensazioni economiche e innescasse un meccanismo di risarcimento più esteso verso i Paesi in via di sviluppo.

Già negli anni Novanta, un gruppo di Stati insulari avanzò delle proposte di finanziamento per i danni subiti dall’innalzamento del livello dei mari, senza ottenere successi; nel 2015, l’Articolo 8 degli Accordi di Parigi riconosceva l’importanza di loss and damage, ma tale riconoscimento non si tradusse in indicazioni pratiche su come affrontarlo; presso la COP26 di Glasgow del 2021, la proposta di creazione di un fondo da parte del primo ministro scozzese Sturgeon non incontrò l’approvazione delle altre economie più avanzate.

La COP27 ha permesso un cambio di passo: nei mesi precedenti la Conferenza, i 46 Paesi meno sviluppati al mondo definirono la creazione di un fondo assegnato a loss and damage una priorità fondamentale delle negoziazioni e, dopo due settimane di strenua attività diplomatica, si è trovato un accordo su questi temi.

I problemi della finanza climatica

Il Sharm el-Sheik Implementation Plan adottato contiene indicazioni su cosa sia necessario fare – istituire il fondo, appunto – non come farlo. Il fondo deve essere reso operativo e, a questo proposito, è stato istituito un Comitato Transizionale (Transitional Committee) che entro la prossima COP28 dovrà stabilirne il funzionamento e la governance, nonché l’origine, le condizioni e l’ammontare dei fondi a disposizione.

Le difficoltà non sono poche e riflettono le criticità del sistema di finanza climatica attuale, la cui problematicità principale consiste nella mancata erogazione dei flussi di finanziamento promessi. Come ricordato, in seno alla COP15 del 2009, i Paesi più sviluppati aderirono all’allocazione di 100 miliardi di dollari all’anno per supportare programmi di adattamento e mitigazione nei paesi in via di sviluppo; tuttavia, i fondi ammontavano solamente a 58.5 nel 2016, 71.1 nel 2017, 78.3 nel 2018, 79.6 nel 2019, e 83.3 miliardi di dollari nel 2020.

Inoltre, l’ordine di 100 miliardi di dollari non sia adatto alle reali esigenze per affrontare i problemi di adattamento dei Paesi in via di sviluppo, per cui le UN stimano un bisogno di 160-340 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, e più di 560 entro il 2050.

A questo va aggiunto che i fondi assegnati dalle istituzioni finanziarie mondiali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), assumono spesso la forma di prestiti, con la conseguenza che i Paesi che ricevono fondi finiscono in un circolo vizioso per cui, da un lato, devono finanziare i lavori per riparare i danni subiti e, dall’altro, ripagare i propri creditori. Mentre questo comporta un crescente livello del debito che rende sempre più costoso prendere a prestito denaro, ostacola anche gli investimenti nei progetti di adaptation, aumentando quindi la possibilità di subire danni e perdite ingenti in futuro e dunque la necessità di ulteriori finanziamenti.

Bridgetown initiative 

Le condizioni di finanziamento per l’azione climatica nei paesi in via di sviluppo devono essere quindi ripensate, in modo che i Paesi più vulnerabili possano ricevere un consistente supporto finanziario senza indebitarsi ulteriormente. A questo proposito, è importante citare la Bridgetown Initiative (BI) – l’iniziativa presentata da Mia Mottley, primo ministro delle Isole Barbados, a Sharm el-Sheik.

La BI propone soluzioni concrete per ristrutturare l’architettura del sistema per il finanziamento dei Paesi in via di sviluppo concentrandosi principalmente sull’incongruenza dei flussi finanziari rispetto alle reali necessità.

Tra le altre cose, la BI propone che l’occorrenza di disastri naturali giustifichi la sospensione temporanea del pagamento degli interessi sul debito e che i finanziamenti vengano assegnati nella forma di concessioni e non di prestiti; suggerisce, inoltre, di recuperare i fondi volti al sostegno dei paesi vulnerabili ai disastri climatici attraverso una tassa sull’emissione di CO2 applicata alle compagnie più inquinanti, stimando un ricavo annuale pari a 200 miliardi di dollari – il doppio di quelli promessi nel 2009.

Infine, la BI prospetta la creazione di un Fondo per la Mitigazione Climatica Globale dalla capacità di 500 miliardi di dollari tratti dall’utilizzo dai Diritti Speciali di Prelievo in seno al FMI per finanziare progetti relativi al clima, per cui questo genere di fondi non contribuirebbe all’accrescersi dell’indebitamento dei Paesi vulnerabili e ne ridurrebbero il rischio di insostenibilità del debito.

Per concludere, iniziative come la BI propongono soluzioni alle storture del sistema della finanza climatica globale, e il fondo di loss and damage promosso durante la COP27 può essere un primo passo verso la ristrutturazione del sistema coerentemente con le reali necessità dei paesi in via di sviluppo e le proposte della BI.

Le riunioni del Comitato Transizionale sono dunque appuntamenti chiave da seguire. Durante i primi incontri sono stati adottati l’agenda e il piano di lavoro e si sono eletti i funzionari ufficiali. Nelle prossime riunioni, invece, il Comitato sarà tenuto a definire chi saranno i finanziatori, quanto estesi saranno i fondi e quali saranno le condizioni di finanziamento, avendo, dunque, l’opportunità di compiere passi significativi verso una più adeguata strutturazione del sistema finanziario per il clima.

Foto di copertina EPA/LEGNAN KOULA

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