La prima fase della partita delle nomine ai vertici delle istituzioni dell’Ue si è chiusa rapidamente al Consiglio europeo del 27 giugno, come previsto alla vigilia. Ursula von der Leyen, candidata dai popolari europei, è stata designata come Presidente della Commissione; l’ex Primo Ministro portoghese Antonio Costa, candidato dei socialisti e democratici, è stato eletto alla presidenza del Consiglio europeo; e si è raggiunto un accordo sulla nomina della Prima Ministra estone Kaja Kallas, candidata dai liberali, per l’incarico di Alto Rappresentante per la Politica estera. Fa implicitamente parte di questo pacchetto anche la conferma di Roberta Metsola alla Presidenza del Parlamento europeo, anche se su questo incarico la decisione spetta ovviamente al Parlamento stesso.
Nessuna sorpresa, ma piuttosto la conferma delle intese raggiunte alla vigilia dai sei negoziatori che avevano concordato il pacchetto delle nomine per conto dei popolari, dei socialisti e democratici e dei liberali, le tre famiglie politiche europee che – sulla base dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo – hanno dimostrato di poter contare su una maggioranza, anche se meno solida che nella precedente legislatura.
Von der Leyen a rischio, apertura a destra per evitare i franchi tiratori?
Ma la partita delle nomine non è ancora conclusa. Mentre infatti la presidenza del Consiglio europeo è ormai acquisita, almeno per i primi due anni e mezzo del mandato, diverso è il caso della Presidenza della Commissione (e, seppur limitatamente, anche dell’incarico di Alto Rappresentante). Von der Leyen, attualmente indicata solo dal Consiglio europeo, dovrà infatti essere ora eletta dal Parlamento europeo in occasione della plenaria in programma a metà di luglio, con un voto a scrutinio segreto, per il quale è necessaria la maggioranza assoluta degli euro-parlamentari (361 voti su 720 membri dell’emiciclo). Sulla carta popolari, socialisti e liberali dovrebbero poter contare su 399 voti. Ma, come confermato da precedenti esperienze, c’è il rischio di un certo numero di franchi tiratori. Da qui l’esigenza per Von der Leyen di cercare di allargare la maggioranza, evitando peraltro di cadere nella trappola dei veti incrociati.
Successivamente i governi nazionali designeranno i membri della Commissione, cui la Presidente affiderà un portafoglio, e un’indicazione delle loro competenze. I Commissari designati a loro volta dovranno essere esaminati e approvati dalle rispettive Commissioni del Parlamento. Infine, la Presidente si presenterà nuovamente di fronte al Parlamento (probabilmente alla plenaria di ottobre) per presentare il suo programma di lavoro e ottenere su questa base un secondo “voto di fiducia”, condizione necessaria per l’insediamento formale della nuova Commissione.
La Meloni davanti a un bivio
Come noto, la prima fase di questo processo si è chiusa con strascichi polemici e rimostranze, soprattutto in Italia. Giorgia Meloni, sentitasi esclusa dall’accordo su queste nomine, ha protestato pubblicamente con un duro intervento in Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo. La leader di Fratelli d’Italia ha affermato che la decisione assunta autonomamente dai rappresentanti dei popolari, dei socialisti e dei liberali europei era inaccettabile sia nel metodo, che non avrebbe tenuto conto del risultato elettorale – che aveva fatto segnare una crescita dei partiti della destra che non erano stati consultati su quell’accordo – sia nella sostanza, perché quella intesa era stata raggiunta senza coinvolgere l’Italia, uno dei pochi Paesi europei in cui il voto per il Pe aveva premiato il governo e la maggioranza che lo sostiene in Parlamento.
Per rafforzare questo messaggio, Meloni, in occasione del Consiglio europeo che ha confermato le nomine, si è astenuta sulla Presidente della Commissione e ha votato contro il Presidente del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante. Una decisione clamorosa, senza precedenti nella storia della partecipazione italiana all’Ue, ma anche una manifestazione di dissenso ininfluente sull’esito di quelle decisioni, che potevano essere adottate a maggioranza qualificata. Una sorta di auto-esclusione da questo passaggio che segna l’apertura della legislatura, con una decisione in cui Meloni ha dato l’impressione di non distinguere tra le sue responsabilità di leader di partito e quelle di capo di governo di uno dei Paesi membri più importanti dell’Ue. Come capo di governo aveva infatti finora mantenuto nei confronti dell’Ue un atteggiamento pragmatico, forse molto transazionale, ma tutto compreso costruttivo.
Ora nella prospettiva del voto sulla Presidente e della formazione della nuova Commissione, per Meloni si pone un delicato problema di scelte. Potrebbe infatti far prevalere l’interesse di partito e decidere di porsi alla testa delle varie (ed eterogenee) formazioni della destra presenti nel Parlamento europeo, adottando una linea di opposizione dura e pura nei confronti dei nuovi vertici delle istituzioni dell’Ue (anche per non lasciare spazio sul fronte interno a Salvini che la incalza su questa linea). Potrebbe quindi coerentemente annunciare pubblicamente il voto contrario degli euro-parlamentari di Fratelli di Italia alla elezione di Von der Leyen.
O, in alternativa, potrebbe far prevalere l’interesse nazionale e rientrare nei giochi (come le consiglia Tajani), scegliendo di negoziare (sotto traccia) con Von der Leyen, lasciando intendere una disponibilità del suo partito a non ostacolare l’elezione della Presidente della Commissione come contropartita di un portafoglio importante per il Commissario italiano.
Se dovesse scegliere la linea dell’intransigenza rischierebbe prevedibili difficoltà di interlocuzione con la nuova Commissione e una marginalizzazione dell’Italia nell’Ue. Oltre al rischio di una bocciatura del Commissario italiano, in occasione dell’audizione al Pe, anche solo per motivi di schieramento politico. Se deciderà per una linea più accomodante, la clamorosa presa di posizione al Consiglio europeo del 27 giugno potrebbe essere derubricata a incidente di percorso, superabile nei fatti e privo di conseguenze di lungo periodo. Non sarà una scelta facile per Meloni, anche per i risvolti sulle dinamiche della sua maggioranza. Ma è su scelte di questo tipo che si misura la capacità di un leader di interpretare al meglio la nozione di interesse nazionale.