La rivoluzione incompiuta del Cile

Gloria de la Fuente e Juan Pablo Luna, entrambi politologi e docenti universitari, ripercorrono nel loro libro intervista Cile, un popolo in movimento (Feltrinelli,2023), pubblicato a ridosso dei cinquant’anni dal colpo di stato di Augusto Pinochet, alcune fasi chiave della turbolenta storia politica cilena: le proteste studentesche del 2006, le mobilitazioni del 2011 e le sollevazioni del 2019.

Seguendo la parabola crescente delle proteste, vengono contestualizzate nel panorama politico, economico e sociale del paese, tra le paure radicate in 17 anni di dittatura delle vecchie generazioni, a quelle nuove, nate nella fase post-democratica e non timorose di far sentire la propria voce.

Attraverso un approccio metodologico basato su fonti primarie e un complesso processo di ricostruzione e traduzione, ci vengono offerte sei inedite interviste che racchiudono lo spectrum socio-politico Cileno, dai quartieri popolari ad ovest di Santiago de Cile ai quartieri medio borghesi a sud della capitale, fino al cuore della Moneda, palazzo presidenziale Cileno, intervistando l’attuale presidente Gabriel Boric.

Giovani militanti del partito comunista cileno, vertici governativi e studenti delle scuole d’élite, tra conflitti generazionali, conflitti politici e le inevitabili contraddizioni che compongono un cammino complesso come quello per la democrazia del proprio Paese.

Dall’arresto di Pinochet alla “rivoluzione dei pinguini”

Il 16 ottobre 1998, a Londra, con l’arresto dell’ex dittatore Augusto Pinochet per crimini contro l’umanità, sembravano essersi sopiti anche gli ultimi strascichi della brutale dittatura che dal 1974 al 1990 aveva segnato, con migliaia di morti ed innumerevoli desaparecidos, una profonda cicatrice nel paese.

Nonostante questa data sia cruciale nel processo di restaurazione, almeno simbolico, della democrazia cilena, gli autori suggeriscono sottilmente come segni l’evoluzione e non la fine del malessere popolare. Infatti, citando diverse chiavi di lettura, tra cui il Rapporto ONU sullo sviluppo umano del 1998 e le parole del sociologo cileno Moulian, si descrive un Paese scisso tra il progresso economico e il malcontento sociale di uno stato ancorato alla dittatura, avendo ereditato l’apparato giuridico, politico e socioeconomico voluto dal Caudillo cileno. Dunque, non è così difficile immaginare le proteste studentesche del 2006 come detonante di anni di malumore sociale.

Le motivazioni delle proteste del 2006 vengono ripercorse attraverso la storia di Karina Delfino e César Valenzuela, leader della ‘rivoluzione dei pinguini’, il cui nome deriva dai colori bianco e nero della divisa degli studenti manifestanti. Questi suggeriscono che il punto di rottura generazionale e politico rappresentato dalle proteste, può essere compreso solamente focalizzandosi nel entorno sociale del paese, a quel tempo guidato dalla Concertación, la coalizione di partiti di centro e sinistra che ha governato il Cile dal 1990 al 2010.

Le proteste nascono dall’incapacità delle forze politiche, appartenenti alla generazione vissuta durante la dittatura, di proporre quei cambi radicali necessari a risolvere le problematiche economiche e sociali del paese. Invece, le nuove generazioni, nate nel contesto della transizione democratica e prive della ‘paura di protestare’ (p. 15) politicizzano la loro disuguaglianza sociale su base territoriale, emergendo dalle periferie con il tema dell’istruzione, ma cominciando ad andare oltre, creando un movimento di classe tra il 2006 e il 2011 con richieste molto più ampie: ‘poi le critiche hanno cominciato a crescere e a farsi più sistemiche: non riguardavano più solo la tessera dello studente o il sussidio alimentare, ma si diceva “Basta con il profitto”, fino a sconfinare nel tema dell’istruzione’ (p.234).

Se i manifestanti del 2006, seppur sfidando la classe dirigente politica, non si erano posti come loro sostituto, le mobilitazioni del 2011 travolgono lo status quo. In un contesto politico differente, caratterizzato dal primo governo di destra dai tempi di Pinochet di Sebastián Piñera, una nuova ondata di proteste infiamma il paese.

Le proteste del 2011 e del 2019

Le proteste del 2011 si iscrivono in un contesto di delegittimazione politica, la cui classe dirigente, ora in parte composta da membri con un passato di collaborazione diretta con la dittatura civile-militare, viene travolta da numerosi scandali di corruzione, mentre gran parte della popolazione cilena, non più solo gli studenti, pretendono cambiamenti riguardo le questioni ambientali, economiche, di genere e molte altre, in un contesto internazionale di fermento collettivo contro gli apparati governativi, dagli Indignados spagnoli alle primavere arabe nella regione del MENA.

Il terzo pilastro che conduce il fil rouge del libro sono le proteste del 2019, raccontate attraverso le voci di una generazione che ha forgiato la propria maturità politica nelle due ondate rivoltose precedenti, tra cui coloro che di lì a poco avrebbero formato il nuovo governo cileno, guidato dal presidente Boric. Le interviste proposte analizzano sia le radici comuni delle tre ondate di protesta, volte a sovvertire il retaggio neoliberale e le diseguaglianze sistemiche imposte dal modello economico, politico e sociale ereditato dalla dittatura, ma anche le caratteristiche che hanno differenziato le rivolte del 2019 dalle precedenti.

Una delle principali discrepanze riguarda la leadership: mentre i movimenti studenteschi del 2006 e poi del 2011 erano rappresentati da gruppi e leader definiti e promuovevano un’agenda specifica, nel 2019 i manifestanti erano composti da gruppi più eterogenei e senza una leadership concreta. Infatti, come sottolineato dal presidente in carica:  “il 2019 poteva sembrare un’esperienza collettiva, ma guardandolo da vicino si notava che era un movimento piuttosto individualista”. Qualsiasi problema era funzionale alla protesta. Lo erano le pensioni, la salute mentale, la criminalità, lo Stato che penalizza. A mancare era una linea politica, l’ambizione di dire “la soluzione è questa” (240).

Tuttavia, nelle sollevazioni del 2019, la contestazione dei partiti politici tradizionali, pilastro delle precedenti ondate, lasciò spazio ad una nuova priorità, ovvero la richiesta di una nuova legge costituzionale. L’obiettivo era – ed è tutt’oggi – abbandonare la Costituzione attualmente in vigore, promulgata nel 1980 durante la dittatura di Pinochet. L’inizio del processo di riforma costituzionale è un aspetto fondamentale delle proteste del 2019. Queste hanno rappresentato il culmine delle precedenti ondate le quali , come ribadito nell’intervista dalla deputata del Partito Comunista Karol Cariola, non avevano portato a risultati tangibili, se non a “incrinare culturalmente il neoliberismo” (193).

La mancanza della voce ‘opposta’

Il volume espone in maniera illuminante, grazie alle testimonianze dei protagonisti di diversi periodi chiave della storia cilena, le dinamiche interne alle contestazioni, i processi che hanno portato alla nascita dei nuovi movimenti di protesta e le difficoltà nel superare i profondi divari generazionali. Ciononostante, se da un lato le esperienze – diverse ma in qualche modo comuni – dei sei intervistati conducono il lettore nella comprensione delle sfaccettature e delle contraddizioni del Cile come degli ostacoli al raggiungimento di una società più equa e democratica, dall’altro, l’inclusione di una voce ideologicamente e politicamente opposta avrebbe contribuito a completare il quadro di un Cile ad oggi profondamente polarizzato.

L’analisi delle divisioni politiche e generazionali propone inoltre  una (auto)critica da parte degli esponenti della sinistra cilena, fino ad ora incapace di interpretare le sensibilità della società nella sua interezza, come ci suggerisce Vallejo: Dobbiamo smetterla di addossare tutte le colpe alla dittatura. Anche per la democrazia è giunto il momento di pagare il conto, perché non siamo riusciti a trovare una soluzione a tutti questi problemi. In altre parole, i responsabili siamo noi. (48)

Foto di copertina EPA/AILEN DIAZ

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