Donald Trump e Kamala Harris, i due sfidanti per la Casa Bianca, hanno entrambi esperienza di politica estera, uno per averla diretta durante il suo mandato presidenziale e l’altra avendo contribuito a definirla come vice-presidente di Joe Biden. Le politiche che hanno diretto o promosso, nonché le esternazioni fatte durante la campagna elettorale, permettono di ricostruire in maniera abbastanza accurata la loro posizione sull’indirizzo generale dell’azione internazionale degli Stati Uniti e sui principali dossier in agenda. Naturalmente, una volta in carica Trump o Harris potrebbero fare valutazioni diverse vista l’incerta direzione delle crisi in corso. Ma è comunque possibile fare una valutazione plausibile degli obiettivi dell’uno o dell’altra candidata – e delle sfide per realizzarli – nei tre maggiori teatri di interesse americano: Europa, Medio Oriente e Asia orientale.
Il teatro europeo
La politica di Trump verso l’Ucraina si configurerebbe in una doppia pressione: da un lato, Trump minaccerebbe di interrompere il sostegno militare per spingere l’Ucraina al compromesso, dall’altro di aumentare l’assistenza militare all’Ucraina stessa per fare pressione su Mosca. L’ipotetico accordo conseguente prevedrebbe la fine delle ostilità in cambio della neutralità dell’Ucraina, che però continuerebbe a beneficiare delle forniture di armi americane. Alla Russia verrebbe lasciato il controllo di fatto (ma non di diritto) delle province ucraine che occupa, ma le sanzioni resterebbero in vigore. Gli europei, in questo scenario, sarebbero consultati poco o nulla. Questa politica incontrerebbe però ostacoli a ogni passo: resistenze interne ai Repubblicani e nell’establishment militare, timori degli alleati europei e l’opposizione di Kyiv. A tutto ciò si aggiunge la probabile indisponibilità della Russia a negoziare nei termini proposti da Trump.
La strategia di Harris è orientata alla continuazione del supporto militare all’Ucraina e ad avviare un negoziato con Mosca solo con pieno coinvolgimento di Kyiv e partecipazione delle capitali europee. Perché questo approccio funzioni, Harris dovrebbe in primo luogo contare su una maggioranza in Congresso disposta a erogare aiuti all’Ucraina, il che è tutt’altro che sicuro. Inoltre, permangono incertezze sulla posizione di Harris su fondamentali dimensioni della gestione del conflitto, dall’autorizzazione a Kyiv all’uso di armi occidentali per colpire obiettivi militari in Russia (possibile) alla garanzia dell’ingresso nella NATO (improbabile). Queste incertezze operative e strategiche rischiano di indebolire la resistenza ucraina e dividere gli europei, minando alla base il tentativo di dare un assetto più stabile alla sicurezza europea.
Il teatro mediorientale
Le divergenze fra i due candidati sono meno pronunciate in Medio Oriente. In continuità col suo primo mandato, Trump darebbe a Israele carta bianca per continuare le sue operazioni a Gaza e in Libano. Nel contempo, tornerebbe a una politica di massima pressione sull’Iran (a dispetto delle sue occasionali esternazioni in favore di una qualche intesa con Teheran) e spingerebbe perché l’Arabia Saudita si unisca alla normalizzazione diplomatica arabo-israeliana nota come Accordi di Abramo.
Dal canto suo, Harris seguirebbe la linea di Biden di sostenere la riduzione militare del network di alleati non-statali dell’Iran: Hamas, Hezbollah e gli Houthi. Anche Harris si impegnerebbe per il rilancio della normalizzazione israelo-saudita, e potrebbe essere pronta ad aumentare le già considerevoli concessioni USA in termini di assistenza nucleare e garanzie di difesa. A differenza di Trump, Harris darebbe maggiore enfasi alla necessità di alleggerire la pressione sui palestinesi e offrire loro una prospettiva di statualità. Né è da escludere che possa appoggiare indirettamente la distensione fra Iran e paesi arabi del Golfo.
Sia l’approccio di Trump sia quello di Harris si scontrano però con ostacoli significativi. L’appoggio a Israele o, nel caso di Harris, la riluttanza a metterlo sotto pressione, continuerà a costringere gli Stati Uniti ad adeguarsi alle politiche di un alleato che tende ad agire unilateralmente e con poco riguardo per le sensibilità di Washington. Questo aumenterebbe il rischio di un coinvolgimento militare diretto americano in un’eventuale escalation con l’Iran, che né Trump né Harris vogliono. Inoltre, la leadership saudita sembra indisponibile a normalizzare i rapporti con Israele in assenza di una prospettiva di risoluzione della questione palestinese, che oggi è però più lontana che mai. La politica mediorientale degli Stati Uniti rischia così di diventare un costante esercizio di ‘limitazione del danno’ a prescindere da chi vinca.
Il teatro asiatico
Il teatro di maggiore convergenza fra Trump e Harris è quello asiatico, visto che entrambi favoriscono una linea dura verso la Cina, ma ciò non vuol dire che non ci siano significative differenze. Trump punterebbe a indebolire la Cina attraverso il ‘disaccoppiamento’ commerciale (decoupling) da attuarsi per mezzo di alte tariffe, restrizioni all’export e pressione sui paesi terzi, europei inclusi, perché riducano i loro affari con Pechino in settori tecnologici sensibili. Questa strategia presenta diverse criticità. Le tariffe causerebbero danni economici agli Stati Uniti e indirettamente anche agli alleati, riducendo la loro propensione a coordinarsi con Washington. Inoltre, non è chiaro fino a che punto Trump sia disposto a impegnarsi nella difesa dei partner asiatici degli Stati Uniti, e in particolare se sia pronto a opporsi militarmente a un tentativo cinese di forzare Taiwan all’unificazione con la terraferma.
Harris continuerebbe il contenimento modulare e multilaterale avviato da Biden, che prevede controlli mirati all’esportazione di tecnologie avanzate e il rafforzamento di partnership come AUKUS (l’accordo di cooperazione militare con Australia e Regno Unito), le trilaterali USA-Giappone-Corea del Sud e USA-Giappone-Filippine, e il Quad, il forum sulla governance indo-pacifica con Giappone, Australia e India. Harris potrebbe aumentare il sostegno a Taiwan ma allo stesso tempo proseguire il dialogo di alto livello con Pechino per contenere i rischi di conflitto. Su questo approccio pesa però la riluttanza a individuare margini di compromesso con la Cina, e resta inoltre incerta la volontà di investire le risorse necessarie per una deterrenza militare credibile nella regione.
Conclusione
Il motore ideale della politica estera di Trump è un combinato di aggressivo unilateralismo e nazionalismo nativista. L’obiettivo è assicurare il primato dell’America creando sistemi di clientele e trattando coi rivali da posizione di forza. Sulla carta, questo pragmatismo spregiudicato dà a Trump maggiore libertà d’azione, perché indifferente alle limitazioni che emanano da norme, pratiche condivise e alleanze. Dall’altra però conferisce un carattere erratico all’azione internazionale degli Stati Uniti che rende più difficile consolidare i guadagni acquisiti.
Harris punta a rafforzare la leadership degli Stati Uniti attraverso il mantenimento del sistema di alleanze in Asia, Europa e Medio Oriente, senza però impegnarsi in conflitti senza una via d’uscita chiara. Il problema è che mantenere la solidità delle alleanze può risultare incompatibile con una gestione ‘da remoto’ delle crisi in Europa, Medio Oriente e potenzialmente nell’Asia-Pacifico. Alla fine, Harris potrebbe esser messa di fronte alla scelta se impegnare gli Stati Uniti più attivamente nei vari teatri o ridimensionare la portata delle alleanze.