Un futuro indecifrabile per il Partito Repubblicano

Donald Trump è il vero e solo uomo al comando del Partito Repubblicano. L’incriminazione dell’ex presidente a New York ha galvanizzato un Gop smarrito, tenace nella difesa del suo leader vittima di una “persecuzione” da parte dei democratici. Una lotta che sta opprimendo l’integrità del potere giudiziario, messo in discussione dalla maggioranza repubblicana al Congresso dotata della presidenza della commissione giustizia.

GOP: nelle mani di The Donald

Negli Usa permane così una netta polarizzazione, alimentata da toni parossistici. Il Partito Repubblicano è in parte responsabile di questo declino del dibattito civile e politico, ma lo spartiacque è stato il 2016. Dopo l’elezione di Trump, il dissenso interno è stato praticamente silenziato. Parlamentari ed esponenti di peso che durante le primarie hanno rivolto pesanti attacchi al magnate newyorkese hanno subìto una metamorfosi kafkiana, emergendo in un secondo momento tra i sostenitori più affezionati. Dal texano Ted Cruz al veterano Lindsey Graham, quest’ultimo in passato amico di Joe Biden, l’elenco di sodali di The Donald è pressoché infinito.

La presidenza Trump non è mai stata oggetto di critiche dentro al Grand Old Party: coloro che ci hanno provato sono stati emarginati, costretti ad andarsene e in alcuni casi espulsi. Ne è un esempio Jeff Flake, ex senatore dell’Arizona nominato ambasciatore da Biden. O Steve Schmidt, ex spin doctor di Bush, Schwarzenegger e McCain, fondatore insieme ad altri suoi colleghi conservatori del Lincoln Project, comitato elettorale nominalmente repubblicano, ma strenuo oppositore del trumpismo. E mentre il Partito si spostava marcatamente a destra, un fenomeno più tenue ma altrettanto significativo è avvenuto dentro ai democratici, sempre più sensibili alle cause progressiste.

Questi due spostamenti non si possono tuttavia equiparare. I dem, infatti, pur essendosi mossi a sinistra non hanno mai abbracciato ideali estremi e anti-democratici. La destra statunitense, invece, piegata alla volontà di un solo, possibile candidato, sta cambiando in senso autoritario ed eversivo. Lo dimostrano i tragici fatti di Capitol Hill, dove a rischiare è stata prima di tutto la tenuta democratica del Paese. Nonostante la fermezza di alcuni – è opportuno citare la rigorosa indipendenza del senatore conservatore Mitch McConnell, ricorrente bersaglio degli insulti di Trump, reo di aver condannato il tentativo di insurrezione al Campidoglio –, il destino del Partito Repubblicano è indecifrabile.

DeSantis crolla nei sondaggi

La creatura di Lincoln e degli abolizionisti si sta trasformando, nei fatti, in un partito personale, non più condizionato dalle scelte libere dei suoi elettori, ma dal temperamento di un uomo chiamato Donald Trump. Prima che l’ex presidente venisse arrestato, qualcuno si era illuso di poterlo rifondare con un volto nuovo, più giovane ma non per questo meno battagliero: Ron DeSantis. Anche lui preso di mira dal suo “padrino” politico (si dice che Trump abbia deciso di sostenerlo nel 2018 dopo aver buttato l’occhio distrattamente su una sua foto mentre era a bordo dell’Air Force One), DeSantis nel 2023 stava crescendo pericolosamente nei sondaggi, forte di una plebiscitaria rielezione alla guida del suo Stato.

Il governatore della Florida ha comunque commesso degli errori: in primo luogo ha titubato sul sostegno all’Ucraina, derubricando la guerra con la Russia a una “disputa territoriale”, ma facendo immediatamente marcia indietro. Poi, una volta incalzato sull’eventuale estradizione di Trump dalla Florida a New York, ha accusato il procuratore che sta indagando sull’ex presidente e ha annunciato di non voler collaborare con le autorità qualora gli fosse pervenuta una richiesta di estradizione, schierandosi con il suo compagno di partito. Tale atteggiamento è apparso come un’ammissione di inferiorità rispetto al suo potenziale avversario e di conseguenza DeSantis, cercando di inseguire l’elettorato trumpiano, è crollato nei sondaggi.

Il Partito Repubblicano a un bivio

Il trionfo di Trump, determinato a candidarsi anche dal carcere, sembra inevitabile, a maggior ragione se nessuno si rivelerà in grado di bloccarne la terza ascesa in vista della convention di Milwaukee nel 2024. Nikki Haley, Asa Hutchinson, Tim Scott e Vivek Ramaswamy, gli altri candidati ufficialmente in corsa alle primarie, non riescono (o forse non vogliono) a essere incisivi nei loro comizi. Con l’incognita Mike Pence pronta a seminare ulteriore incertezza da un momento all’altro, soprattutto se l’ex vicepresidente degli Stati Uniti dovesse davvero testimoniare contro Trump nel procedimento su Capitol Hill. E nel frattempo i temi, dall’aborto alle armi fino alla guerra in Ucraina, rimangono in sospeso, consentendo a Biden e i dem di imporre la loro posizione nel flusso mediatico quasi di contorno alle vicende giudiziarie dell’ex presidente repubblicano.

Il futuro del Partito Repubblicano dipenderà dalla capacità dei suoi membri di ristabilire una gerarchia sì leaderistica, ma meno verticale. Identificare un’ideologia in una persona è un azzardo che può trascinare all’improbabile instaurazione di un sistema illiberale o al collasso. Con Trump ancora al timone, la crisi è soltanto rimandata.

Foto di copertina EPA/JUSTIN LANE

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