Global Britain: la difficile risalita internazionale di Londra

“Il Regno Unito non è affatto un Paese corrotto”. Sono le parole che Boris Johnson non avrebbe voluto pronunciare nel vivo di Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Eppure, con gli occhi del mondo puntati su Glasgow, il primo ministro britannico si è trovato a dover difendere se stesso, il suo partito e il suo Paese da accuse di corruzione che hanno rischiato di offuscare, almeno per lui, i lavori della conferenza. Non il miglior biglietto da visita per la Global Britain post-Brexit.

Più problematiche per Johnson delle difficoltà della conferenza sul clima sono le accuse di corruzione, di sleaze, al partito conservatore che da settimane dominano le prime pagine dei giornali, con alcuni deputati Tories accusati di lobbismo e altri di aver tenuto redditizie consulenze esterne a scapito dei propri elettori.

Lo scandalo è insidioso per il primo ministro. Innanzitutto perché rischia di screditarlo agli occhi degli elettori: alcuni recenti sondaggi mostrano il Labour in rimonta o addirittura davanti ai Tories, per la prima volta da circa un anno.
Poi perché, prima ancora che gli elettori, Johnson rischia di alienarsi il partito, che è pragmaticamente pronto a sostenerlo se garantisse la vittoria alle urne. Se questa percezione dovesse venir meno, le sorti di Johnson potrebbero cambiare. Non siamo ancora a questo punto – il primo ministro resta un candidato formidabile in campagna elettorale – ma lo scontento tra alcuni deputati (soprattutto i neo-eletti nelle aree ex-laburiste del Nord-Inghilterra) per come è stata gestita la crisi comincia a serpeggiare. “Ho guidato la macchina dentro un fossato”, ha ammesso Johnson di fronte al partito in un rarissimo mea culpa.

Le ambizioni della Global Britain
E poi lo scandalo rischia di offuscare l’immagine della Global Britain già appannata dai disagi della Brexit, la crisi degli approvvigionamenti, e la fallimentare gestione della pandemia. Anche il taglio del budget annuale per gli aiuti in settori come la salute e l’assistenza al lavoro umanitario ridotto dallo 0,7% del PIL allo 0,5%, pari circa a 4 miliardi di sterline – ha danneggiato la reputazione del Regno Unito. Scelta “moralmente sbagliata e politicamente imprudente. Rompe la parola data e danneggia il nostro soft power”, aveva detto John Major.

Johnson aveva puntato moltissimo sulla presidenza di Cop26 come un’opportunità per affermare il ruolo del Regno Unito sulla scena mondiale. Per mostrare a tutti il nuovo volto di un Paese “globale”, finalmente libero dai lacci dell’Unione Europea e in grado di esercitare il suo soft power, Johnson sperava che Glasgow potesse essere un punto di svolta nella lotta al cambiamento climatico.

Il premier aveva coniato uno dei suoi slogan a effetto, questa volta non le classiche tre parole, ma quattro, le chiavi per combattere il cambiamento climatico: “cash, coal, cars and trees” – ovvero soldi, carbone, auto e alberi. E la conferenza era partita con messaggi toccanti come quello del naturalista David Attenborough, la visita glamour dei reali William e Kate, un video-discorso della Regina – e soprattutto con iniziative ambiziose su deforestazione, tagli ai sussidi sul carbone e altro.

Una presidenza sottotono
Ma dopo quasi due settimane la Cop si è conclusa in maniera deludente, con Alok Sharma, l’uomo scelto da Johnson per presiedere la conferenza, quasi in lacrime al momento di presentare alla stampa i risultati delle negoziazioni. Non che non siano stati fatti progressi – dai fondi destinati alle economie meno avanzate per fronteggiare gli effetti devastanti del riscaldamento globale agli impegni per il taglio delle emissioni – ma le obiezioni di Cina e India hanno costretto ad annacquare impegni vitali sul carbone. E sulle emissioni, le promesse fatte, se anche fossero mantenute da tutti, non basterebbero a garantire un aumento inferiore ai 2.4 gradi centigradi entro l’anno 2100.

Se l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro 1.5 gradi “rimane in vita”, come ha detto Sharma, certamente non gode di buona salute. O, per dirla con Ed Miliband, è in “terapia intensiva”. Non un fallimento, dunque, ma nemmeno un trionfo. E a Johnson è mancato il colpaccio diplomatico sperato, il breakthrough che poteva rendere Glasgow un momento storico. Certo, non si può imputare a lui la colpa di un processo negoziale che ha fallito tante altre volte. “In un certo senso, Boris Johnson è stato l’ospite perfetto per la Cop26. Il primo ministro britannico è specializzato in ottimismo infondato e vane promesse. Il vertice sul clima di Glasgow ha prodotto entrambi in abbondanza”, ha scritto, impietoso, il Financial Times al termine della conferenza.

Il 2021 doveva sancire, nella visione di Boris Johnson, la rinascita del Paese con l’uscita dalla pandemia, la ripresa economica, e la presidenza del G7 e della Cop. Doveva aiutare a definire finalmente la Global Britain. Ci sono stati eventi importanti come il G7 in Cornovaglia con la presenza della Regina, o l’accordo trilaterale per la sicurezza con l’Australia e gli Usa che tanto ha fatto infuriare la Francia. L’aumento dei contagi, nonostante i vaccini, sta rallentando la ripresa e domina le energie del governo, unito al risultato della conferenza sul clima hanno fatto capire alla Global Britain quanto sia difficile trovare la propria voce, e farla sentire, al resto del mondo.

Foto di copertina EPA/ROBERT PERRY

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