L’ ‘effetto boomerang’ della colonizzazione su Israele

Mentre l’economia israeliana era bloccata e il primo ministro Benjamin Netanyahu si convinceva della necessità di sospendere temporaneamente la sua legge di riforma giudiziaria, un ultimo accordo si è reso necessario per tenere insieme la sua coalizione di governo.

Itamar Ben Gvir, un razzista seriale che guida il partito Potere Ebraico e ricopre la carica di ministro della Sicurezza nazionale, ha ricevuto da Netanyahu la promessa che lo Stato procederà con la creazione di una guardia nazionale sotto l’autorità di Ben Gvir – soprannominata da alcuni commentatori la sua “milizia privata”.

Le due crisi di Israele

Questo accordo dimostra l’intima connessione tra le due crisi che attanagliano contemporaneamente Israele: la polarizzazione interna sulle riforme giudiziarie e l’escalation dell’estremismo contro i palestinesi, alimentata dal governo.

Questa connessione è evidente, ma raramente riconosciuta nei circoli politici israeliani. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha commentato in modo sferzante la revisione del sistema giudiziario, ma ha mantenuto il suo studiato silenzio sulle violazioni criminali dei diritti dei palestinesi da parte di Israele – indicando che anche Washington non riesce a unire i puntini.

La convocazione da parte dell’amministrazione statunitense di funzionari israeliani e palestinesi, insieme alle loro controparti giordane ed egiziane, a Sharm El Sheikh a marzo e ad Aqaba a febbraio, dimostra che Washington è intenzionata a continuare il suo modello tristemente inadeguato di gestione delle relazioni con Israele e le relative conseguenze per i palestinesi.

Mentre non capita tutti i giorni che i giornalisti occidentali usino parole come “pogrom” per descrivere gli attacchi contro i palestinesi, come abbiamo visto dopo i recenti fatti di Huwwara, capita tutti i giorni che i palestinesi subiscano violenze e vedano calpestati i loro diritti umani fondamentali da parte di soldati israeliani, polizia, milizie di coloni – o una loro combinazione.

Quando Netanyahu ha paragonato le azioni dei coloni a Huwwara a quelle dei manifestanti pro-democrazia in tutto il Paese, molti si sono indignati. Ma il forte legame tra le politiche e la violenza israeliane nei confronti dei palestinesi e la contestazione della democrazia israeliana è incontrovertibile, anche se scomodo.

La società israeliana sta vivendo quello che lo scrittore e politico anticoloniale franco-martinicano Aime Cesaire ha definito l’ “effetto boomerang della colonizzazione“. Il lavoro di Cesaire e di altri ha esaminato come le politiche utilizzate dagli Stati coloniali sui colonizzati potessero poi essere riportate nella metropoli imperiale e impiegate contro i cittadini.

Proteste e occupazione

Nell’ambito del colonialismo israeliano, la distinzione geografica tra colonia e metropoli è molto limitata – ma ora stiamo assistendo al fenomeno per cui alcuni degli strumenti autoritari forgiati dallo Stato israeliano per controllare i palestinesi vengono rivolti contro elementi della popolazione ebraica israeliana. Alcuni settori di questa popolazione temono la limitazione delle proprie libertà.

La spinta della destra israeliana per le riforme giudiziarie è stata fortemente motivata dall’obiettivo di consolidare l’occupazione, privare definitivamente dei diritti i palestinesi e cementare la supremazia ebraica. Sebbene i tribunali non abbiano impedito il graduale raggiungimento di questi obiettivi – la massiccia matrice di insediamenti è un esempio del colossale fallimento del sistema giudiziario israeliano nel sostenere i diritti dei palestinesi – essi sono comunque serviti a ostacolare e ritardare, e probabilmente saranno di impedimento alla realizzazione della piena annessione e dell’espulsione di massa.

Ciò contribuisce a spiegare perché gli ultimi oppositori al compromesso temporaneo di Netanyahu, sia in parlamento che nelle strade, appartengono al campo dei coloni religiosi di estrema destra.

Il più grande affronto alla governance democratica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo non è il ruolo del parlamento israeliano nella selezione dei giudici o nell’annullare le loro decisioni, ma piuttosto un’occupazione permanente che nega i diritti democratici ai palestinesi al di là delle linee del 1967, insieme alla discriminazione strutturale che conferisce uno status di seconda classe ai palestinesi all’interno di quelle stesse linee.

Questa situazione perdurante ha portato le principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, Amnesty International e Human Rights Watch, a designare giustamente questa realtà come rispondente alla definizione legale di apartheid. Conclusioni simili sono state tratte in precedenza da gruppi israeliani per i diritti umani, attivisti della società civile palestinese, accademici e politici.

L’amministrazione Biden ha espresso preoccupazione sia per l’escalation di violenza in Israele/Palestina sia per le riforme giudiziarie proposte. La ricetta degli Stati Uniti sembra essere la stessa per affrontare entrambi i problemi: il ritorno allo status quo ante. In altre parole, un ritorno alla sicurezza e alla democrazia per gli ebrei israeliani, mentre nessuna delle due cose è accessibile per i palestinesi.

Esiste un fenomeno israeliano ben collaudato che consiste nell’urlare alla “crisi” ogni volta che un funzionario statunitense non è d’accordo con una politica israeliana. Questo fenomeno è ora in piena espansione, comprese le reazioni della leadership israeliana, dopo che Biden ha detto che Netanyahu non è attualmente invitato alla Casa Bianca e che Israele non può “continuare su questa strada” per quanto riguarda le riforme giudiziarie (a quanto pare, più di mezzo secolo di occupazione può invece continuare).

Ma le parole non si sono tradotte in azioni; non c’è nessuna crisi. Anzi, un’analisi più lucida racconta una storia diversa: l’enorme influenza di Washington nei confronti di Israele rimane intatta e la bilancia pende ancora decisamente dalla parte della carota anziché del bastone.

Il silenziamento delle voci palestinesi

Non più tardi di febbraio, gli Stati Uniti hanno nuovamente garantito che avrebbero posto il veto su una risoluzione non gradita a Israele al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’amministrazione Biden continua a spingere e a convincere Paesi terzi a normalizzare e migliorare le relazioni con Israele e sta promuovendo l’accettazione di Israele nel Visa Waiver Program statunitense. Dal podio dei portavoce, si ricorre a ogni sorta di acrobazia linguistica per evitare di pronunciare o confermare l’esistenza di un’occupazione.

Per essere chiari, sul fronte interno Netanyahu ha – per ora – fatto marcia indietro, non in risposta alle pressioni degli Stati Uniti, ma piuttosto in presenza di un’opposizione interna senza precedenti. Questa opposizione è incentrata sulla minaccia di perdite economiche e sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Tali strumenti, a lungo sostenuti dal movimento anti-occupazione e anti-apartheid, sono stati attaccati da tutto l’arco politico sionista come illegittimi o peggio.

Se i negoziati per un compromesso sulla riforma giudiziaria falliranno e Netanyahu riproporrà la legislazione accantonata, non c’è da aspettarsi che gli Stati Uniti facciano da salvatori.

Per molto tempo, l’establishment politico israeliano centrista e progressista ha fatto grandi sforzi per mettere a tacere le voci palestinesi, criminalizzando il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e avanzando accuse spurie di antisemitismo in risposta a critiche legittime a Israele. Tale successo è ora parte del loro problema: l’impunità internazionale costruita da Israele in decenni di violazione dei diritti dei palestinesi va ora a beneficio degli architetti della linea dura della revisione giudiziaria.

L’ultima illustrazione dell’approccio degli Stati Uniti sul fronte palestinese è il comunicato congiunto dell’incontro del 19 marzo a Sharm El Sheikh, in Egitto. Il comunicato ha ripetuto in gran parte la dichiarazione rilasciata a febbraio dopo un incontro analogo ad Aqaba, in Giordania, con lo stesso gruppo di partecipanti – ora apparentemente denominato il Quintetto.

Pieno di aspirazioni altisonanti riguardo alla fiducia e alla costruzione della pace, il comunicato di Sharm El Sheikh è nato morto come il suo equivalente di Aqaba.

L’inadeguatezza più devastante di questo approccio è che l’enfasi degli Stati Uniti sulla de-escalation si traduce in pratica nella tranquillità solo degli ebrei israeliani, mentre per i palestinesi continuano l’occupazione, l’insicurezza e l’umiliazione quotidiana.

L’insistenza degli Stati Uniti sul fatto che entrambe le parti evitino “misure unilaterali” potrebbe sembrare ragionevole, ma questo atteggiamento finisce per mettere sullo stesso piano le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele (costruzione di insediamenti, demolizioni di case, confisca di terre, uso sproporzionato della forza e punizioni collettive per la popolazione civile a Gaza e altrove) e gli sforzi palestinesi per far valere quello stesso diritto in sedi internazionali come le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.

La posta in gioco geopolitica

Nello spingere per intensificare la cooperazione militare tra Israele e l’Autorità Palestinese, ignorando l’ingiustizia di fondo dell’occupazione a tempo indeterminato, gli Stati Uniti assumono la posizione secondo cui occupante e occupato dovrebbero lavorare insieme per stabilizzare l’occupazione. Ciò contribuisce a spiegare perché il partito palestinese al potere, Fatah, perde popolarità e legittimità – e perché gli Stati Uniti (e lo stesso presidente palestinese Mahmoud Abbas) si rifiutano di sostenere le elezioni palestinesi, che non si svolgono da 17 anni.

In breve, la persistente politica degli Stati Uniti e dell’Occidente di garantire l’impunità israeliana – assicurando che le azioni di Israele siano prive di costi e conseguenze – funge da stampella per il crescente estremismo di Israele. L’opinione pubblica israeliana ha dato potere a politici come Ben Gvir e Bezalel Smotrich, e Netanyahu li ha inclusi nella sua coalizione di governo, ben sapendo che non ne sarebbero seguite sanzioni significative per Israele.

Due anni fa, siamo stati due dei coautori di un rapporto intitolato “Breaking the Israel-Palestine Status Quo: A Rights-Based Approach”, che lanciava l’allarme sulla pericolosità degli sviluppi in atto e sul modo in cui la politica statunitense stava esasperando questa situazione.

Ma per gli Stati Uniti e l’occidente nel suo complesso, la posta in gioco geopolitica è oggi ancora più alta. L’abisso tra la retorica occidentale sull’Ucraina e l’offrire copertura alle azioni illegali di Israele comporta costi reali per gli Stati Uniti e l’Europa sulla scena internazionale. Questo fatto è spesso citato dai paesi del Sud globale come l’esempio più lampante nel respingere le affermazioni morali su un ordine “basato sulle regole” guidato dall’occidente.

Huwwara è il presente, ma apre anche una finestra sul passato e uno sguardo a un potenziale futuro. Una seconda Nakba è qualcosa che i politici israeliani di destra minacciano apertamente e con sempre maggiore frequenza, e per la quale le milizie dei coloni stanno testando il terreno sotto la copertura militare israeliana.

L’insipida politica del centro e del centro-sinistra sionista non può invertire queste tendenze. Per le potenze esterne, la scelta è tra la complicità nell’apartheid e mettere Israele di fronte alle sue responsabilità. E se i palestinesi hanno sempre pagato il prezzo dell’impunità di Israele, molti israeliani stanno ora scoprendo che questo comporta dei costi anche per se stessi.

Foto di copertina EPA/ALAA BADARNEH

Questo articolo è stato pubblicato su Middle East Eye il 30 marzo 2023

Ultime pubblicazioni