Gli aerei di sesta generazione frammentano la difesa europea

Il processo di integrazione della difesa europea ha tra i suoi principali obiettivi quello di eliminare gradualmente le numerose duplicazioni da parte degli Stati membri nell’acquisto e sviluppo di sistemi d’arma, equipaggiamenti e tecnologie. Questo tipo di duplicazione porta con sé una frammentazione a livello di investimenti, capacità produttive e di manutenzione che va inevitabilmente ad influire negativamente sul raggiungimento di un’economia di scala vantaggiosa per gli assetti in questione e le forze armate che li comprano e utilizzano.

La forte accelerazione del progresso tecnologico nel campo della difesa richiede somme sempre più ingenti perché Paesi come l’Italia possano investire in modo congruo nello sviluppo, acquisto e manutenzione di nuove tecnologie. Se da una parte la guerra in Ucraina ha spiazzato in molti Paesi europei i vecchi paradigmi che portavano a spese militari troppo limitate, è altrettanto vero che un aumento dei bilanci non può da solo compensare il fatto che una forza armata capace e moderna necessita di sistemi, capacità e tecnologie sempre più complessi (e dunque più costosi) per far fronte alle nuove e molteplici minacce che ci riguardano da vicino.

La sesta generazione

Fra le tecnologie prioritarie per l’Italia figurano i velivoli da combattimento di sesta generazione. Rispetto agli aerei di quinta generazione come l’F-35, oggi predominante nei Paesi occidentali, la nuova generazione dovrebbe aumentare il fattore bassa osservabilità – il cosiddetto stealth – rispondendo però a una logica di sistema di sistemi ancora più avanzata dell’attuale stato dell’arte. Inoltre, è probabile che questi velivoli saranno progettati secondo standard di modularità che permettano l’integrazione di sistemi d’arma di nuova concezione, come le armi ad energia diretta.

Una delle capacità più suggestive che sembrerebbe accomunare tutti i progetti attualmente in corsa sarà quella di poter operare insieme a droni da combattimento potenzialmente autonomi. Soprannominati ‘loyal wingmen’, questi velivoli serviranno ad amplificare notevolmente l’efficacia di un singolo sistema di sesta generazione affiancandoli e svolgendo il ruolo di ‘gregari’.

È evidente che capacità del genere, insieme alle tecnologie necessarie per padroneggiarle, avranno un costo molto elevato rispetto ai programmi del passato. È per questo motivo che in Europa si è ben radicata la consapevolezza che nessun Paese, da solo, sarebbe in grado di mettere in campo investimenti militari e capacità industriali sufficienti a portare a termine un programma del genere con successo.

Il problema della frammentazione europea

E qui entra in gioco l’elemento di frammentazione in Europa. Al momento, infatti, convivono due programmi separati: il Tempest, che coinvolge Regno Unito, Italia e Svezia, ed il Future Air Combat System (Fcas) a guida francese con la partecipazione di Germania e Spagna. Fcas sta faticando a prendere quota a causa di dispute interne fra la francese Dassault (che guida il programma) ed il ramo tedesco di Airbus. Resta da risolvere la questione del workshare, ovvero la suddivisione del lavoro tra le industrie dei tre Paesi – partendo dallo sviluppo e arrivando alla produzione di sistemi e componenti. Infatti, la Francia e la sua industria della difesa, la più autonoma in Europa in campo aerospaziale, si aspettano una ‘fetta di torta’ preponderante rispetto a quello che sarebbero disposte a concedere alle controparti tedesche.

La collaborazione franco-tedesca su Fcas non nasce da un accordo tra le rispettive forze armate o a livello industriale, ma da una decisione politica presa da Merkel e Macron nel 2017, dopo il referendum su Brexit, con l’obiettivo di dare una spinta alla cooperazione europea nell’ambito della difesa. La mancanza di una convergenza militare e industriale a monte ha reso la cooperazione fra le due parti difficoltosa sin dall’inizio.

Le cose sembrano aver preso una piega peggiore dopo l’annuncio da Berlino di un fondo da 100 miliardi di euro per il rinnovamento delle forze armate e della volontà di arrivare a spendere almeno il 2% del Pil nella difesa entro il 2024. Il surplus del bilancio tedesco cambia infatti i volumi di investimento e quindi i rapporti di forza tra Parigi e Berlino nei programmi congiunti, e mette in grado la Germania di considerare varie opzioni – compreso il Tempest. Non è certamente passato inosservato l’acquisto da parte del governo Scholz di F-35, che aumenta per l’aeronautica tedesca la convergenza operativa con Gran Bretagna e Italia e non certo quella con la Francia.

È chiaro però che le difficoltà nel trovare un accordo soddisfacente per Berlino stanno avendo effetti deleteri sulla tabella di marcia di Fcas. Infatti, secondo l’amministratore delegato di Dassault Eric Trappier, il velivolo potrebbe entrare in servizio dopo il 2050 anziché il 2040 a causa dei continui ritardi. Ad oggi, invece, stando alle dichiarazioni ufficiali delle aziende coinvolte il Tempest sembra procedere a ritmi ben più serrati. Dal lato britannico si parla adesso di vederlo entrare in servizio nella Royal Air Force addirittura dal 2035.

Fcas e Tempest: destinati a confluire?

In seguito ad un accordo fra Tokyo e Londra, questo mese anche il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare Luca Goretti volerà in Giappone per esplorare opportunità di cooperazione sulle tecnologie legate ai velivoli da combattimento di sesta generazione. Non è ancora chiaro quale forma il coinvolgimento giapponese assumerà nell’ambito di Tempest, se come partner a tutti gli effetti oppure se i tre Paesi europei e Tokyo decideranno di collaborare solamente su componenti specifiche.

Goretti, come del resto la sua controparte da Berlino, ha più volte dichiarato che una fusione tra Tempest e Fcas resta molto probabile in quanto sarebbe l’unica soluzione per ripartire e quindi rendere sostenibili dei costi di sviluppo elevatissimi. La comparsa di Tokyo nel già frammentato mondo dei velivoli di sesta generazione in Europa rischia tuttavia di complicare ulteriormente la complessa equazione che porterebbe ad una fusione fra Fcas e Tempest.

I Paesi coinvolti nei due programmi dovranno valutare attentamente in che modo conciliare due elementi fondamentali in tutte le collaborazioni nel campo della difesa. Se la necessità di abbassare i costi di sviluppo, produzione e manutenzione spinge ad allargare la cooperazione ad altri attori, ciò porta più attori industriali a dividere lo stesso workshare, e quindi a ridurre la fetta di quota di tecnologie che si andranno a sviluppare. Il know-how giapponese, insieme al potenziale aumento della spesa militare di Tokyo, potrebbe rafforzare il programma a trazione britannica senza stravolgere radicalmente gli accordi legati al workshare già definiti tra Roma e Londra.

È ancora impossibile prevedere con certezza se le traiettorie di Tempest e di Fcas finiranno per convergere nel futuro. Questa eventualità è legata alla volontà di Francia e Regno Unito, che guidano i due programmi, di trovare un accordo che inevitabilmente comporterebbe una diminuzione del workshare e delle ricadute sulle industrie nazionali. Quello che è certo è che più a lungo i due programmi procederanno separatamente, più sarà difficile pensare ad una fusione dei due.

Foto di copertina EPA/VALDA KALNINA

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