Gli Accordi di Abramo dopo l’attacco a Israele

Dopo il brutale attacco di Hamas a Israele, lo schema degli Accordi di Abramo, che doveva presto culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele, entra in crisi. Congelato, indebolito, posticipato da una guerra dai confini ancora imprevedibili. Tuttavia, è ancora presto per escludere che sauditi e israeliani instaurino, nel medio-lungo periodo, rapporti ufficiali: “Ogni giorno ci avviciniamo di più a un accordo” diceva in un’intervista americana, solo due settimane fa, il principe ereditario saudita. Per Mohammed bin Salman, tornare sui propri passi rispetto a Israele sarebbe infatti una sconfitta troppo grande, un segno di debolezza politica interna e regionale, poiché rimetterebbe in discussione la strategia di politica estera del regno.

Le tappe della normalizzazione

Per Riyadh, la normalizzazione con Israele era diventata una priorità, poiché legata alla leadership regionale, nonché alla ridefinizione dell’alleanza con gli USA. Insieme al riconoscimento di Israele, i sauditi stavano infatti negoziando garanzie di sicurezza con Washington nonché il supporto americano al loro programma nucleare per uso civile. E poi c’è la diversificazione economica post-oil di Vision 2030, che necessita di stabilità e interdipendenza regionale. Se Riyadh facesse retromarcia nei confronti di Israele, regalerebbe poi spazi geoeconomici agli Emirati Arabi Uniti, alleati ma competitor; basti pensare –per fare solo un esempio – al progetto del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini.

E poi c’è un fattore ancora più importante, quello della reputazione. Seppur informali, i progressi tra sauditi e israeliani erano sempre più visibili, come la visita del ministro del turismo d’Israele in Arabia appena il 26 settembre scorso. Certo, Mohammed bin Salman ha mostrato più volte di essere un giocatore spregiudicato, a cominciare dal caso Khashoggi; ma nel caso di Israele, un ripiegamento di linea minerebbe la forza della sua leadership, che ne uscirebbe indebolita.

Ecco che allora, più degli Accordi di Abramo già firmati e (forse) futuri, è la tenuta delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, datata marzo 2023, a rischiare di più con la guerra tra Hamas e Israele. Se il plausibile ruolo dell’Iran nell’organizzazione dell’attacco contro Israele venisse accertato e, soprattutto, se gli Hezbollah libanesi e/o le milizie sciite siriane dovessero unirsi alla guerra di Hamas, la distensione tra Arabia Saudita e Iran sarebbe a rischio. L’unico punto (pubblico) del documento siglato a Pechino dai rivali storici del Golfo è la non ingerenza negli affari reciproci: però, il ruolo offensivo delle milizie filo-iraniane e il loro arsenale missilistico sono –ancor prima del nucleare di Teheran- il vero spauracchio delle monarchie del Golfo, a cominciare dallo Yemen.

Proprio per comprendere in anticipo gli obiettivi che l’Arabia Saudita sta perseguendo in Medio Oriente, occorre osservare la politica estera del Bahrein, paese fortemente legato a Riyadh. Nel 2020, Manama ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele e nel settembre 2023 ha siglato con gli Stati Uniti un’intesa che rafforza la cooperazione bilaterale, con al centro sicurezza e difesa. Questa è esattamente la direzione strategica che l’Arabia Saudita stava seguendo al momento dello scoppio della guerra Hamas-Israele.

Il Bahrein non è certo un battitore libero. Tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), è quello che più dipende da Riyadh per energia (uno dei due giacimenti petroliferi offshore, Abu Safah, è condiviso con i sauditi), economia (nel 2011 e nel 2018 ha ricevuto aiuti finanziari da Riyadh e dalle monarchie vicine) e difesa (il dispiegamento della Guardia Nazionale saudita fu decisivo per reprimere la rivolta dei bahreiniti, prevalentemente sciiti, nel 2011).

Il piccolo regno, in realtà un arcipelago di trentatré isole collegato all’Arabia Saudita tramite un ponte di circa venti chilometri, persegue obiettivi pressoché sovrapponibili a quelli di Riyadh, condividendo rischi di sicurezza e destino nella regione. Con la differenza che il Bahrein può muoversi, in politica estera, più agilmente del gigante saudita, poiché privo del suo peso religioso, economico e dunque geopolitico.

Ecco il motivo per cui Manama ha potuto giocare d’anticipo –d’intesa con i sauditi- rispetto alla stessa Riyadh. Tra Bahrein e Arabia Saudita, c’è qualche differenza solo a proposito dell’Iran. Ma in questo caso, la monarchia bahreinita di confessione sunnita, da sempre particolarmente guardinga nei confronti di Teheran data la maggioranza sciita della popolazione, ha assecondato fin qui la de-escalation tra sauditi e iraniani poiché Riyadh è il suo primo garante di sicurezza.

L’accordo di sicurezza tra Bahrein e Israele

Dopo gli Accordi di Abramo del 2020, il Bahrein ha siglato un’intesa di sicurezza con Israele nel 2022, fin qui l’unico patto di difesa tra un paese del Golfo e gli israeliani. L’accordo comprende la cooperazione in materia di intelligence, industria della difesa e tra forze armate (military-to-military) , incluse le esercitazioni militari congiunte. Bahrein e Israele condividono una lettura analoga degli equilibri mediorientali, poiché entrambi guardano all’Iran come a una minaccia diretta alla sicurezza. Con l’accordo, Israele trova un alleato di sicurezza che si affaccia nel Golfo, proprio di fronte all’Iran. Invece, la popolazione bahreinita (come i vicini sauditi) rimane diffusamente tiepida rispetto alla normalizzazione con Israele: il turismo verso Tel Aviv e Gerusalemme è ancora assai contenuto, così come l’interscambio commerciale, e non sono mancate proteste contro la normalizzazione, specie da parte sciita.

Il patto con gli USA verso la difesa integrata

Nel settembre 2023 il Bahrein, già sede della V Flotta USA e major non-NATO ally dal 2002, ha poi rafforzato la cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti, firmando a Washington il Comprehensive Security Integration and Prosperity Agreement (C-SIPA). L’accordo -non un trattato, che implicherebbe invece l’approvazione del dubbioso Congresso USA- include commercio, tecnologie e investimenti, ma è centrato su sicurezza e difesa. In caso di attacco, le parti si riuniranno per “determinare le ulteriori necessità di difesa, sviluppare e applicare risposte appropriate in tema di difesa e deterrenza”, incluse quelle militari.

Con questo passaggio-chiave, il Bahrein ha ottenuto da Washington quelle garanzie di sicurezza che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti chiedono da tempo e stanno ora negoziando. Non a caso l’accordo, che vuole sottolineare l’impegno degli USA nel Golfo ma senza stipulare un trattato, contiene un riferimento all’architettura regionale di sicurezza ed è aperto all’adesione di altri Stati. Manama e Washington si impegnano al «rafforzamento dell’integrazione dei sistemi difensivi e delle capacità di deterrenza», soprattutto nel dominio aereo e marittimo.

L’obiettivo è quindi la difesa integrata: lavorare come partner per identificare, contrastare e, se necessario, rispondere alle comuni minacce di sicurezza. Tra gli ambiti da integrare, il testo menziona difesa antimissilistica, intelligence e cybersecurity, forze speciali, comunicazione strategica.

Ferite vecchie e nuove

Il piccolo Bahrein, anch’esso impegnato nella realizzazione della propria “Vision 2030” che lo traghetti oltre la dipendenza dagli idrocarburi, è dunque al centro dei nuovi assetti di sicurezza mediorientali e internazionali. Improbabile che Manama, dopo l’attacco di Hamas a Israele, ristabilisca presto le relazioni diplomatiche con Teheran (in questo caso sarebbe dopo l’Arabia Saudita). Al momento, il Bahrein è infatti l’unico membro del CCG a non avere un ambasciatore nella Repubblica Islamica. Pesano ancora le accuse del governo bahreinita all’Iran di aver fomentato le proteste del 2011, che misero davvero a rischio la stabilità del regno, nonché di sostenere formazioni locali che si ispirano a Hezbollah .

Nonostante l’ombrello di protezione dell’Arabia Saudita, il Bahrein deve fronteggiare un contesto problematico, anche interno. L’accordo con gli Stati Uniti è stato firmato nei giorni in cui circa 800 detenuti bahreiniti, arrestati per le rivolte del 2011, terminavano uno storico sciopero della fame collettivo, durato 36 giorni, organizzato per protestare contro le condizioni di vita in carcere . Talvolta, il Bahrein paga la vicinanza politica a Riyadh. Per esempio, Il 26 settembre scorso, quattro militari bahreiniti sono morti al confine saudita-yemenita (Manama fa parte della Coalizione militare a guida saudita che interviene militarmente in Yemen dal 2015), per l’attacco di un drone attribuito agli houthi yemeniti. Un probabile messaggio degli houthi a Riyadh, scontenti dell’andamento dei colloqui bilaterali, che ha colpito l’alleato più stretto del regno. Letto con gli occhi del dopo 7 ottobre, il primo segnale che qualcosa stava rapidamente cambiando nel quadrante. Un episodio, non inedito, che dà il senso dei rischi –e non solo dei benefici- di condividere il destino dei sauditi in Medio Oriente.

Foto di copertina EPA/Chris Kleponis/POOL

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