Giorgia Meloni ha bisogno dell’Unione europea

L’inquietudine per i risultati delle elezioni italiane, pervade comprensibilmente tutte le capitali occidentali e le istituzioni europee. Non ha senso oggi cercare di prevedere cosa succederà, troppe variabili sono ignote, ma si possono stabilire alcuni parametri. Al momento, l’inquietudine si basa sulle parole più che sui fatti.

Il rapporto con l’Europa

In politica le parole, o piuttosto il loro uso retorico, contano. Corroborate dalla cultura politica da cui proviene Giorgia Meloni, frasi come “è finita la pacchia”, “rispetto della sovranità”, “finalmente difesa dell’interesse nazionale”, “Europa delle nazioni”, sono state pronunciate, non sono state smentite e sono alla fonte delle preoccupazioni visibili a Parigi, Berlino, Bruxelles, ma anche in altre capitali europee e a Washington. È difficile non tener conto che nel suo programma c’è l’affermazione della supremazia del diritto nazionale su quello europeo.

In tutto questo c’è del vero, anche perché il successo di Meloni è parte di un più vasto fenomeno europeo. Forse più per fortuna che per disegno, Meloni ha scelto di collocarsi in Europa a fianco dei polacchi nel gruppo dei ”Conservatori europei” e non dei nazionalisti filo-russi dominati da Salvini e Le Pen. Di conseguenza a Strasburgo il suo schieramento fa parte della cosiddetta “maggioranza Ursula” che espresse consenso all’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, poi di Roberta Metzola alla testa del Parlamento e non è emarginato nel gioco parlamentare.

Del resto, l’Ue non funziona come una normale democrazia parlamentare con maggioranze e minoranze, ma è un terreno di alleanze variabili, politiche e nazionali, che si formano a seconda dei problemi. Inoltre, come le famiglie infelici di Tolstoj, i populismi sono per definizione diversi l’uno dall’altro; nel mondo reale, ognuno è nazionalista a modo suo. Se il fronte europeista fatica a produrre un’idea coerente di Europa, quello sovranista è unito solo dal rifiuto dell’Europa che c’è. Infine, se essere al governo è già per definizione diverso che essere all’opposizione, passare in poco tempo dal 5 al 26% dei suffragi pone a qualsiasi formazione politica un problema identitario ed esistenziale.

Tutto ciò avrebbe più peso se fosse in corso un negoziato serio sull’avvenire dell’Ue in cui si confrontano progetti contrapposti. Anche se molti considerano necessario un simile dibattito e invocano una riforma dei trattati, per il momento non è così. Le discussioni sui massimi principi animano le risoluzioni del Parlamento Europeo e i media, a volte i discorsi dei leader, ma non necessariamente la vita quotidiana dell’UE. Ciò che conterà per il ruolo dell’Italia meloniana in Europa, sarà il modo con cui affronterà i problemi concreti, cominciando dai più urgenti e importanti.

Dare alla propria politica europea l’etichetta “dell’interesse nazionale” è in fondo abbastanza banale, come quel personaggio di Molière che scopriva di parlare in prosa. In realtà serve solo a suggerire polemicamente che “quelli di prima” erano succubi di interessi altrui. Ora però il problema di Meloni è identificare concretamente l’interesse nazionale, operazione non sempre evidente in un contesto complicato come quello europeo.

Riforma delle regole di bilancio e attuazione del Pnrr

Sono due questioni interconnesse, fondamentali perché condizionano anche la politica economica interna del prossimo governo. Facendo una campagna all’insegna della prudenza in materia di conti pubblici, Meloni ha dato segni di capire l’importanza della posta in gioco. I mercati possono essere molto più spietati dei governi. Indipendentemente dalla retorica a cui assisteremo, è abbastanza improbabile che la sua definizione di “interesse nazionale” su queste questioni e quindi gli obiettivi perseguiti, si discostino molto da quelli degli ultimi due governi che la vedevano all’opposizione. Ciò crea peraltro una contraddizione che deve essere sanata con alcune insensate promesse fiscali enunciate in campagna elettorale.

Nella stessa logica dell’interesse nazionale, l’Italia dovrebbe anche restare partigiana di un nuovo programma di investimenti europei, la cui necessaria conseguenza sarebbe più e non meno condivisione di sovranità. Per il momento, il principale pericolo è l’eterno problema italiano del funzionamento della macchina dello stato; nel caso attuale, dell’attuazione pratica del Pnrr con tempi e vincoli da far tremare i polsi ai politici più sperimentati. Nell’immediato e prima ancora di affrontare i problemi di cui sopra, ci sarà il complicato negoziato europeo sull’energia e il prezzo del gas, dove le posizioni dei singoli paesi sono ancora abbastanza distanti e dove Meloni sembra a giusto titolo criticare l’unilateralismo di altri invece di rivendicare simili comportamneti da parte dell’Italia.

Ucraina e Russia 

Malgrado le inevitabili bizze dei suoi alleati, Meloni non avrà difficoltà a restare “dalla parte degli angeli” anche per quanto riguarda l’invio di armi e l’inasprimento delle sanzioni. In quel percorso, oltre alle bizze di Salvini, incontrerà anche l’ostilità di Orban. Ciò le permetterà di mantenere buoni rapporti con Washington; a condizione però che non commetta l’errore di mostrare di vivere nell’attesa del ritorno di Trump. Anche a prescindere dal fatto che una simile posizione la isolerebbe in Europa, Meloni deve provare la sua credibilità internazionale adesso, non fra due anni.

Globalizzazione e rafforzamento tecnologico dell’Europa

Da un certo punto di vista, il ridimensionamento della globalizzazione che tutti stiamo vivendo, le facilita la vita. Tuttavia, il protezionismo e il nazionalismo della cultura meloniana si manifesterà probabilmente anche verso l’UE. Ciò rischia di provocare numerosi conflitti, a cominciare dalla sua ostilità alla vendita dell’ex Alitalia a un concorrente europeo (Air France o Lufthansa), ma più in generale sulla politica industriale. È auspicabile che non passi troppo tempo prima che Meloni assimili il fatto di che l’interesse nazionale italiano è quello di una nazione che ha una tradizionale vocazione esportatrice e la cui industria è fortemente integrata con il resto dell’Europa e in particolare con quella tedesca.

Valori tradizionali, stato di diritto e problema polacco e ungherese

Sarà una questione difficile da trattare e qualche scintilla è prevedibile. D’altro canto, Bruxelles, Parigi e Berlino sono consapevoli che gli strumenti di cui l’UE dispone per contrastare le derive illiberali nella politica interna dei paesi membri, rendono difficili interventi d’autorità. Inoltre è interesse strategico di tutti approfondire il fossato che la guerra in Ucraina ha creato fra Polonia e Ungheria. La materia richiede pazienza strategica. Comunque Meloni scoprirà rapidamente che, aldilà delle simpatie ideologiche, non c’è praticamente nessuna coincidenza concreta fra gli interessi nazionali dell’Italia e quelli della Polonia e dell’Ungheria. Anche all’interno, dirigere un paese largamente secolarizzato non le concede spazio per tentare dar seguito alla sua retorica e mettere in discussione diritti acquisiti come tentano di fare i suoi amici a Varsavia e a Budapest.

Immigrazione

Su questo tema fondamentale, né la destra né la sinistra sembrano capaci di esprimere una politica credibile. Vale per l’Italia come per gli altri paesi europei. Meloni ha già messo la sordina alla balorda idea del “blocco navale”. Al governo, dovrà affrontare la realtà di un mare – quello Mediterraneo – largamente incontrollabile, dove ogni tragedia rischierà di pesare come un macigno sulla sua reputazione di “madre cristiana”. Scoprirà presto che lo slogan “dell’Europa che ci lascia soli” è in contraddizione con il fatto che l’Italia accoglie meno immigrati di quasi tutti i suoi vicini; la ripartizione obbligatoria degli arrivi non ha molto senso tranne che in presenza di flussi eccezionali come quelli che conoscemmo nel 2015.

L’Europa può invece essere importante per rafforzare il controllo delle frontiere e per negoziare canali d’immigrazione regolare o accordi di rimpatrio con i paesi di origine. Per il resto la sfida principale dell’integrazione degli immigrati presenti sul territorio e che per una qualsiasi ragione non è possibile rimpatriare, pesa sulle spalle dei singoli governi; compito a cui la destra italiana sembra impreparata.

Il sovranismo alla porta?

Liberarsi del peso della retorica quando si rivela incompatibile con la realtà è una delle sfide più difficili per un leader politico. Ci vuole il talento di un Mitterrand. Su questo punto il giudizio su Meloni è sospeso. Il paradosso per una leader che ha trionfato avvolgendosi nel mantello dell’interesse nazionale, è che il suo successo in Europa dipenderà dalla capacità di capire che perseguire quell’interesse richiede proprio l’abbandono della retorica sovranista su cui ha costruito la sua fortuna. Per cominciare deve capire che non può aspettarsi quasi nulla da Varsavia e da Budapest, ma che avrà soprattutto bisogno della Francia e della Spagna per il negoziato sulle regole europee e della Germania con cui l’Italia condivide l’atlantismo e la vocazione esportatrice. Ciò che Draghi le ha educatamente ricordato in uno dei suoi ultimi interventi.

Per il momento Meloni deve fare i conti con le aspettative che ha suscitato, non ha esperienza di governo e tantomeno di come funziona l’Europa reale. Molto quindi dipenderà dalla squadra di governo e soprattutto da chi occuperà i ministeri chiave. Non sarebbe del resto la prima volta. Meloni avrà bisogno di uomini e donne che potranno avere lo stesso indispensabile ruolo di Piercarlo Padoan e Paolo Gentiloni per compensare le intemperanze di Renzi, o di Giovanni Tria per scongiurare i drammi a cui andava incontro il governo Conte/Salvini. Deve però fare in fretta, gli eventi non le concedono molto tempo.

Foto di copertina ANSA/ANGELO CARCONI

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