Europa e Israele: un rapporto complesso che rifugge da schematismi

L’ articolo “Israele -Palestina: il cambio di paradigma che l’Unione europea continua a ignorare” condanna atti e atteggiamenti dell’Unione europea che giudica anacronistici rispetto al sostegno della soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Al di là delle disfunzioni e debolezze oggettive costitutive della politica estera della Ue e finora irrisolte – regola dell’unanimità, meccanismi complessi che inibiscono il passare dalla sfera delle dichiarazioni a quella dell’azione operativa, ecc. – trovo il ragionamento sotteso errato, tutto fondato su asserzioni apodittiche circa la natura “coloniale” di Israele o il suo nascere da un colonialismo d’insediamento.

Molto vasta è la dottrina che informa tale tesi, ma la inficia il fatto che diversamente da altri casi del genere – Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, il sionismo e la nascita 75 anni fa dello stato di Israele in quella terra – Eretz Israel o Palestina – non è il prodotto di coloni europei che lasciano le terre di origine esportando con sé nelle nuove cultura, lingua, interessi, protesi al sostituire o “convertire” gli indigeni, bensì di ebrei che fuggono dall’Europa con la sua storia infame di esclusioni e persecuzioni antisemite e rigettano quella Europa, la sua cultura, la sua lingua, il suo razzismo.

Sionismo e identità nazionale palestinese

Il conflitto che attanaglia i due popoli da oltre cent’anni contrappone due movimenti nazionali che rivendicano un diritto di autodeterminazione su uno stesso lembo di terra. Un embrione di identità nazionale palestinese si formò proprio negli anni Venti del secolo scorso poco dopo gli inizi dell’immigrazione ebraica. I due popoli sono accumunati anche dalle ironie della demografia: circa 7 milioni di ebrei e un analogo numero di arabo-palestinesi abitano il territorio compreso fra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Il sionismo è stato il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermarono soprattutto nell’Est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall’antisemitismo e a diventare una nazione “normale” dopo secoli di esilio e persecuzioni; ma quella terra era abitata da altre genti – arabi – , sudditi dell’impero ottomano e poi britannico, che col tempo e anche in virtù del confronto duro con il nazionalismo ebraico acquisirono una coscienza di nazione come palestinesi.

Ai palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori cui bisognava resistere. Ancora oggi per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l’insediamento degli ebrei in Palestina come un’ingiustizia è difficile accettare le conseguenze di questi eventi, cioè l’esistenza legittima dello Stato d’Israele. A molti di loro gli ebrei appaiono ancora come una realtà transeunte nella “umma” musulmana , o una comunità religiosa, non un popolo, cui riconoscere il diritto a un proprio stato. Tardivamente, almeno nelle istanze ufficiali, lo riconobbero, con gli accordi di Oslo del 1993.

Un accordo difficile

Certamente un’occupazione di 56 anni non è più un fatto temporaneo; non è più un elemento di trattativa, come negli anni successivi alla guerra del 1967 e fino agli accordi di Oslo del 1993, per uno scambio fra territori e pace. Sotto la pressione del movimento dei coloni e dei partiti di destra che lo sostengono l’espansione degli insediamenti, la confisca di terreni anche di soggetti privati palestinesi, rendono un futuro di due stati indipendenti e in rapporti di buon vicinato più difficile e la realtà emergente nei fatti di uno stato unico con diritti diseguali più vicina. Eppure la soluzione “a due stati” resta l’unica possibile, forse con correttivi di tipo confederale – su cui vi sono proposte solide in ambito sia accademico che politico -; detta soluzione esige la spartizione concordata di quella terra contesa.

L’accordo dovrà riguardare lo “status finale” e comprendere: i confini fra i due stati, lo status di Gerusalemme, capitale fisicamente unita ma amministrativamente divisa dei due stati, il ritiro di 100-130 mila coloni dei 450 mila che abitano in Cisgiordania escludendo quindi quelli i cui insediamenti saranno oggetto di scambio di territori con lo stato di Palestina, il ritorno di una parte dei rifugiati palestinesi nel loro futuro stato tranne un numero limitato già negoziato nel 2000 a Camp David e Taba che potrebbe trasferirsi nello stato di Israele.

La forza egemonica dei partiti di destra e lo spostamento profondo avvenuto nella società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste sono anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata anni fa dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro civili israeliani negli anni 2001-05; l’inutile guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert nei negoziati del 2008 che dischiuse la porta alla premiership di Netanyahu e da allora ai governi del Likud con i partiti religiosi con esso alleati.

Status quo e prospettive

Lo status quo non è tollerabile, come dimostrano le esplosioni ricorrenti di violenza e le stesse violenze inter-etniche scoppiate nel 2021 fra ebrei ed arabi cittadini di Israele. Soprattutto il ripetersi di una guerra distruttrice con Hamas nella striscia di Gaza, le aggressioni contro civili israeliani all’interno del paese o sulle strade Cisgiordane, la debolezza endemica dell’Autorità palestinese e l’emergere di formazioni palestinesi militarizzate ad essa opposte, dimostrano che il costo della non-pace è enorme e l’illusione che i palestinesi accettino il perdurare di un’occupazione umiliante è pericolosa per lo stesso Israele.

Nel governo attuale l’ideologia dominante predica l’annessione in parte o toto della Cisgiordania. Non sono solo gli oltre 400 mila coloni negli insediamenti in Cisgiordania a rendere la soluzione “a due Stati” più difficile nei fatti; anche una vasta parte della società preferisce che i palestinesi restino “invisibili” dietro il muro di separazione.

Secondo inchieste d’opinione appena poco più di un terzo degli israeliani sostiene convinto una soluzione “a due stati”, il 19% opta per uno stato unico, democratico ed egualitario, il 15% propugna l’annessione piena dei territori senza diritti politici per i palestinesi. In questa grande incertezza, la spinta dei governi israeliani è stata quella di mantenere lo status quo, senza un’annessione formale ma espandendo gli insediamenti e i loro residenti. L’impulso fattivo di Stati Uniti ed Ue dovrebbe essere invece quello di spingere la leadership israeliana verso la soluzione “a due stati”, con un programma di incentivi e sanzioni; gli stessi accordi di normalizzazione conclusi con gli Emirati e il Bahrein, oltre a facilitare l’integrazione di Israele nella regione, possono agire sull’opinione pubblica del paese al fine di spingerla in favore di una soluzione negoziata del conflitto.

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