L’eredità morale della Dichiarazione di San Pietroburgo

Se i generali russi di oggi volessero rifarsi davvero alla grandezza della loro patria e al valore militare della loro storia, non avrebbero che da ricordare le “leggi dell’umanità” e i principi che i loro progenitori, in una  “Commissione militare” di due secoli fa, concepirono e lasciarono come eredità universale nella Dichiarazione di San Pietroburgo. Da questa, sulla scia degli accordi sul grano e per lo scambio di prigionieri, si potrebbe realisticamente ripartire per limitare gli attacchi indiscriminati, ora rivolti alle centrali elettriche e alle reti idriche per infliggere sofferenze e fiaccare la popolazione.

La Russia alle origini della regolamentazione del diritto di guerra 

Le cronache di questi tempi hanno mostrato le spietate strategie dei generali russi adottate in Siria e ora replicate in Ucraina, e quindi appare difficile affrontare realisticamente un discorso che miri ad affermare un qualche principio che limiti il livello della violenza bellica raggiunto in Ucraina. E tuttavia i giuristi, specie quelli di formazione militare (non va dimenticato che ad essi si deve lo sviluppo del diritto internazionale umanitario, come accaduto in Italia ad opera del generale Pietro Verri), hanno il dovere di porre in agenda questo obiettivo, partendo dal richiamare i principi fondamentali che regolano la condotta della guerra. 

Per questo fine, dai comandanti russi ci si attende qualcosa di diverso, per il rilievo di una singolare circostanza: la regolamentazione del diritto di guerra, insieme alle tappe compiute a Solferino, a Ginevra e all’Aja, si afferma in forma universale proprio nella Russia zarista di metà ottocento, l’epopea tanto evocata nel mito della Grande Russia di Putin. È infatti ad Alessandro II di Russia che si deve la Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868 in cui si sancì il principio di limitazione di alcuni tipi di armi e munizionamenti per limitare gli effetti dalla guerra.  

Lo spirito della Dichiarazione di San Pietroburgo

La Dichiarazione di San Pietroburgo merita una riflessione particolare, benché oggi possa apparire priva di significato.  Intanto, ne va richiamata l’importanza per ribadire il ruolo delle componenti militari nella formazione del diritto umanitario: fu infatti concepita, nel 1868 da una Commissione militare internazionale. Venne adottata da un vasto numero di Stati, dalla Prussia al Brasile, che assumevano l’impegno a rinunciare all’impiego di proiettili esplosivi inferiori a 400 grammi. Ancorché destinati a colpire mezzi di trasporto, di fatto piccoli proiettili esplosivi di quel tipo finivano col colpire le persone causando gravi ferite con sofferenze atroci – superflue per i fini militari della guerra.

Se ci si limita solo a leggere la prescrizione, dunque, il documento sembra ingenuo nei contenuti. Ma così non è se si dà voce alla parte del Preambolo, che nei trattati internazionali, come gli interpreti dell’International Law ben sanno, può contenere affermazioni di principio più generali e di carattere universale. I passaggi significativi della Dichiarazione riguardano infatti i Considerando, che è il caso di richiamare testualmente:

«Considerando:
– che i progressi della civiltà devono produrre l’effetto di attenuare, nei limiti del possibile, le calamità della guerra;

– che il solo scopo legittimo che gli stati devono prefiggersi durante la guerra è l’indebolire le forze militari del nemico;

– che a tal fine è sufficiente mettere fuori combattimento il più gran numero possibile di nemici;

– che si va al di là dello scopo anzidetto se si usano armi che aggravano inutilmente le sofferenze degli uomini messi fuori combattimento o ne rendono la morte inevitabile;

– che l’uso di tali armi sarebbe pertanto contrario alle leggi dell’umanità (…) ».  

Le “leggi dell’umanità”: l’eredità universale di San Pietroburgo

È, quindi, un dato storico che nella Russia dell’ottocento si affermino concetti fondamentali che recepiscono le teorie giusnaturalistiche incentrate sul tema delle “leggi dell’umanità”, profondamente discusso da Grozio fino all’Illuminismo. Leggi da intendersi come limite anche per l’esercizio della violenza bellica.

Pochi anni dopo, sempre in Russia, è al giurista Fyodor Martens che si deve la Clausola Martens del 1899, il fondamentale principio affermatosi nel diritto consuetudinario secondo cui, anche quando una situazione non è esplicitamente disciplinata dai trattati, i civili e i combattenti rimangono in ogni caso “sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti quali risultano dalle consuetudini stabilite, dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza”.

Vale poi ricordare, in una chiave necessaria di sintesi, che il progetto del diritto internazionale umanitario è approdato alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai  Protocolli I e II del 1977, dove la tutela della popolazione civile è affermata in particolare all’articolo 51 (I).

Vi si richiamano le condizioni fondamentali per la condotta della guerra: si declina ancora il “principio di distinzione” tra combattenti e popolazioni civili, nonché tra obiettivi militari e civili, e si vietano gli attacchi “dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti tra la popolazione civile”,  o una “combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto”.

Uno scenario che sembra proprio quello che oggi si delinea nell’escalation assunta dalla guerra in Ucraina. Rispetto poi, alla questione posta sulla violenza bellica che colpisce oggi le centrali elettriche e le risorse idriche per fiaccare la popolazione, l’articolo 54 (I) reca un titolo eloquente: Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Il principio è la condanna di ogni azione di guerra, anche a titolo di “rappresaglia”, che abbia “la deliberata intenzione” di privare la popolazione civile o la Parte avversaria dei mezzi di sussistenza, e in particolare di “far soffrire la fame alle persone civili”, per provocarne lo spostamento o per qualsiasi altro scopo.  

C’è, dunque, un tratto ancora da compiere per le componenti militari che in qualche misura stanno adoperando gli strumenti del diritto internazionale umanitario per discutere di scambi di prigionieri: l’auspicio è che possano iniziare a parlare di come ridurre la violenza della guerra sulle popolazioni civili. Anche Clausewitz ammetteva l’idea che nella guerra non vale solo la forza delle armi, e che i “valori dello spirito” possono emergere, e talvolta essere risolutivi in un conflitto.

Foto di copertina EPA/SERGEI ILNITSKY

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