Conversazione con Hamid Reza Gholamzadeh: “L’unità nazionale arma vincente di Pezeshkian”

Conversazione con Il Professor Hamid Reza Gholamzadeh, docente in Storia degli Stati Uniti d’America è oggi responsabile per gli Affari internazionali della Municipalità di Teheran e Segretario Generale dell’Asian Mayors Forum. Lo incontro nel suo ufficio del Comune di Teheran.

In questa fase particolarmente complicata a livello internazionale qual è a suo avviso il ruolo che può occupare l’Iran, oggi governato dal presidente Masoud Pezeshkian?

“Nelle condizioni attuali che, non solo nella regione ma a livello internazionale, sono tese e piene di tensioni, credo che questo approccio pacifico e mirato al dialogo del Prof. Pezeshkian possa essere un bene per la Repubblica islamica dell’Iran”. A suo avviso che peculiarità ha il governo del presidente Pezeshkian rispetto ai governi riformisti del passato? “La peculiarità e la forza che ha il governo del presidente Pezeshkian sono date dal fatto che ha cercato di creare un governo di unità nazionale e di pace. Lui si è dimostrato essere in grado di lavorare anche con i partiti politici a lui opposti. Guardando al passato, il governo Rouhani aveva una condizione internazionale abbastanza semplice dinanzi a sé e ha seguito una politica lineare, improntata solo sui negoziati per raggiungere l’Accordo nucleare JCPOA. Quello di Pezeshkian è un governo invece più affine a quello del presidente Khatami. Al tempo lui venne eletto dopo aver presentato il “Dialogo tra le civiltà”, ma nel 2001 ci furono gli attacchi dell’11 settembre dopo i quali gli americani inserirono l’Iran nell’Asse del male. Anche il presidente Khatami ebbe a che fare con una fortissima tensione nella regione sfociata nei conflitti in Afghanistan e Iraq, ma il presidente Pezeshkian ha però avuto una situazione ancor più difficile: la notte del suo insediamento viene assassinato a Teheran Ismail Haniyeh, a cui sono seguiti gli attentati contro i comandanti dei Pasdaran e tutta una catena di fatti negativi che purtroppo influenzano la sua presidenza, fino ad arrivare in ultimo a ciò che è accaduto in Siria. Quindi devo dire che le sfide in politica estera per l’Amministrazione Pezeshkian sono maggiori rispetto ai governi precedenti”.

È d’accordo sul fatto che il successo del suo governo dipenderà dalla sua capacità di riaprire i negoziati per il nucleare in chiave di alleggerimento del regime sanzionatorio subito dall’Iran?

“Il presidente Pezeshkian ha promesso di fare tutto il possibile affinché ciò avvenga e questa è certamente una delle condizioni che potrebbe dare il successo alla sua politica estera. Sulla riapertura di un dialogo con l’Occidente non sono ottimista. Non per le volontà del presidente Pezeshkian, ma perché ritengo che in questa fase le parti occidentali non vogliano dialogare, non vogliano la pace. Non vedo in Europa e negli Stati Uniti i leader giusti per poter fare oggi un accordo con l’Iran, che sia riprendere l’Accordo nucleare precedente, il JCPOA, o farne uno nuovo”.

Secondo lei in politica estera, la strategia dell’Iran per il Medio Oriente, fondata sull’Asse della resistenza, ha fallito?

“Non si può dire che l’Asse della resistenza sia stato sconfitto, probabilmente è stato indebolito o ha perso una battaglia, ma diciamo che la guerra non è ancora finita. Torno al paragone col periodo del presidente Khatami, quando Iraq e Afghanistan vennero attaccati e poi occupati. Questi due paesi hanno lunghissime frontiere con l’Iran, anche al tempo si pensava che potesse essere una grande minaccia per il paese, ma nel corso degli anni le condizioni cambiarono a favore dell’Iran. Ora la Siria non ha confini con noi, è vero che ciò che è accaduto mette in difficoltà l’Asse della resistenza, soprattutto in materia di comunicazioni, però io credo che bisogni aspettare per vedere quali saranno le conseguenze a lungo termine. Considerate che lo Yemen o Hamas sono stretti alleati dell’Iran, ma con loro non abbiamo scambi diretti. Quindi ora, con il venir meno della Siria, non si potranno avere scambi con il Libano, visto che si transitava per l’Iraq e la Siria per raggiungere Beirut. Questo però non significa che l’Asse della resistenza sia stato sconfitto o distrutto. Nel settore della sicurezza gli iraniani agiscono tradizionalmente con molta pazienza. A breve termine è chiaro che gli sviluppi in Siria sono a scapito dell’Iran però, proprio come accadde in Iraq, io sono convinto che a lungo andare gli sviluppi saranno a favore dell’Iran anche in Siria. Credo che il burattinaio di tutta questa storia della Siria sia la Turchia e a mio avviso è proprio la Turchia il principale perdente, nel senso che a lungo andare gli sviluppi della Siria andranno contro gli interessi di questo paese. In linea generale dobbiamo comprendere che ci sono delle realtà millenarie in questa regione, che nessuno può cambiare. Non è possibile cambiarne la geografia. Mi spiego meglio. Da tantissimi anni i popoli di Iran e Iraq, Siria e Turchia vivono e fanno parte di quest’area. Ciò che deve accadere è che questa regione diventi sicura e credo che la sicurezza sia il dono più importante per ognuna di queste nazioni. La potenza e la sicurezza di una nazione in questa regione, così sensibile, non si ottiene con un’operazione lampo o con una conquista improvvisa. Ci vogliono anni di lavoro e molta pazienza. Secondo me, la carta vincente dell’Iran è proprio il fatto che ha capito che deve agire con politiche che raggiungano i propri risultati a lungo termine e dunque agisce con molta prudenza e parsimonia. In questi 40 anni vediamo che questa politica ha pagato, l’Iran è sempre stato dalla parte vincente”.

Lei è un grande esperto di Stati Uniti d’America. Che idea si è fatto sulla nuova Amministrazione di Donald Trump e dei rapporti che potrebbe avere con il suo paese?

“Il presidente Trump è un politico pragmatico e ha una tecnica che ha adoperato nel primo mandato e che attualmente sta riutilizzando ancor prima di insediarsi. Lui cerca di diffondere paura in modo che questo terrore iniziale faccia già la metà del lavoro che poi lui andrà a compiere una volta insediato. Se noi riusciamo a superare questo strato mediatico superficiale creato dalla paura, in uno più profondo possiamo osservare un presidente Trump pragmatico e anche molto realista. A mio avviso quindi, conoscendolo bene, l’Iran non deve temere questo presidente. Durante la prima Amministrazione, il presidente Trump ha applicato la politica della massima pressione nei confronti dell’Iran. L’entourage di questa seconda Amministrazione è ancor più anti iraniano, anche se c’è una grossa questione in ballo. Lui ha già colpito con le sanzioni tutti i settori possibili, non gli rimane praticamente nulla da aggiungere a ciò che già è in vigore. Ricordo che a partire da Clinton, Bush figlio e Obama, tutti hanno parlato di sanzioni paralizzanti nei confronti dell’Iran, però le sanzioni nei fatti, per quanto forti, non sono mai riuscite a mettere in ginocchio o a far fallire l’economia iraniana. Quindi credo che sostanzialmente lo strumento delle sanzioni abbia fallito. Non voglio assolutamente fare retorica, ma voglio essere realista. Credo che se Trump, come qualsiasi altro governo, voglia raggiungere buoni risultati con l’Iran debba completamente cambiare strategia”.

Un accordo strategico ventennale, firmato nel 2001, ha segnato il primo patto di cooperazione tra Teheran e Mosca, poi fu esteso per cinque anni nel 2020 e pare che sia vicino un nuovo grande patto. Le parti si stanno consultando per individuare il momento ottimale per la firma dell’accordo che probabilmente sarà raggiunto in un viaggio del presidente Pezeshkian previsto a Mosca per quest’anno. Un rafforzamento dei rapporti tra Iran e Russia, visto che Trump parla abbastanza agevolmente con Putin, potrebbe aiutare ad un alleggerimento delle sanzioni?

“Io non credo che ciò avverrà e non credo che si potrà fare un accordo, come ho detto, tra Iran e Stati Uniti, perché i sentimenti dell’opinione pubblica americana e le condizioni interne degli Stati Uniti e della regione non lo permettono. Sulla carta entrambe le parti avrebbero da guadagnarci e quindi ci sarebbero i presupposti per un accordo, però credo che la situazione generale impedisca che ciò avvenga. In questo momento abbia – mo i conflitti in Ucraina e poi quello a Gaza e nei Territori occupati e credo che il presidente Trump sarà in grado di por – re fine a entrambi questi conflitti. Lui vuole porre al centro l’idea America first, ma credo che gli altri attori regionali e internazionali non lo aiuteranno e questo potrebbe di fatto ostacolare i suoi piani. In primis credo che la Russia punti a non risolvere nell’immediato la crisi in Medio Oriente, perché tale crisi distrae l’attenzione dell’opinione pubblica dal conflitto in Ucraina. La Russia ha interesse che sia risolta e chiusa per prima la questione Ucraina. L’Europa dal suo canto non può perdere la guerra contro la Russia e Trump vuole che questa guerra finisca. Credo che il presidente americano finirà per imporre tutte le spese agli europei e per questo ne conseguirà una situazione ambigua: da una parte la sua volontà di porre fine alla guerra, dall’altra l’insoddisfazione degli europei. L’altro attore che non vuole la fine di questi conflitti è la Cina. Nel periodo di Obama c’è stato il cambio di paradigma nella politica estera degli Stati Uniti che decisero di concentrare i loro interessi sulla Cina, spostandoli dall’Asia occidentale e dal Medio Oriente. Il conflitto in Ucraina e le tensioni in Medio Oriente tengono impegnati gli Stati Uniti impedendogli di con – centrarsi sulla Cina e dunque la Cina non vuole la fine di queste tensioni. Questo per quanto concerne gli attori internazionali. Tra gli attori regionali, il più importante è la Turchia. La Turchia ha un vero e proprio piano di dominio basato sulla teoria del neo ottomanesimo, nel senso che loro vogliono far rivivere l’Impero ottomano. In Siria hanno conquistato dei territori e c’è il timore che intendano conquistarne di nuovi in Medio Oriente. Parte del territorio della Siria ora è però in mano ai curdi che sono nemici giurati della Turchia, ma i curdi sono importanti alleati degli Stati Uniti che non possono rinunciare a questa alleanza seppur a discapito della Turchia. La Turchia è quindi in questa regione un’altra incognita, un ulteriore elemento di instabilità. Torniamo agli Stati Uniti che a loro volta hanno un grosso problema in Siria. Da una parte infatti c’è Israele, che sta creando una zona cuscinetto attorno ai suoi territori, conquistando parte della Siria, con l’eventualità che possa entrare anche in Giordania o in Egitto. D’altra parte, in Siria gli americani hanno una grande gatta da pelare. Al potere ora ci sono gruppi vicini ai Fratelli Musulmani, al-Iḫwān al-muslimīn , sostenuti da Turchia e Qatar che hanno come nemici Arabia Saudita ed Emirati. Insomma ci sono interessi divergenti che coinvolgono paesi alleati con gli americani e risolvere la questione sarà decisamente difficile. Ritengo per tutto ciò che gli Stati Uniti siano impelagati in situazioni complicate che richiederanno molto tempo nella migliore delle ipotesi, e dunque non saranno in grado di occuparsi del dossier iraniano per poter fare un accordo”.

Quanto sta avvenendo a Gaza è un macigno sulla strada degli Accordi di Abramo? Iran e Arabia Saudita, in conseguenza di quello che stiamo assistendo nella Striscia, sono più vicini di qualche anno fa?

“Gli Stati Uniti sperano ancora negli Accordi di Abramo, ma sono d’accordo con lei. I 15 mesi di guerra a Gaza sono ormai la tomba di questi patti e presto gli americani se ne accorgeranno. Non solo non andranno avanti con l’Arabia Saudita, ma anche nei paesi con cui questi accordi risultano sanciti, la sensibilità nei confronti di Israele ora è altissima e le popolazioni sono davvero indignate. Quello che ha avvicinato l’Iran e l’Arabia Saudita in questo momento, ancor più di Gaza, sono comunque gli accadimenti in Siria”.

Dal quadro che ci ha fatto emerge che un possibile sviluppo economico da parte dell’Iran potrebbe al momento avvenire in sinergia con paesi come la Cina o la Russia, a dispetto dell’Occidente. È così?

“L’Iran ha iniziato i negoziati e ha offerto di agli europei di incontrarsi per dimostrare la sua buona volontà. Indipendentemente dalle reali possibili – tà, mettiamo che raggiungano un accordo oggi, è importante riflettere sul fatto che la situazione economica dell’Europa non è prospera e quindi anche un inizio immediato degli scambi, a mio avviso, non avrebbe degli effetti molto rilevanti sull’economia iraniana. Il presidente Rouhani mise da parte gli altri poli e si concentrò sul negoziato con l’Occidente. Il presidente Raisi viceversa lasciò stare l’Occidente cercando di rendere proficui i rapporti che l’Iran poteva avere con gli altri paesi della regione, con i Brics, con l’organizzazione di Shanghai, con Cina e Russia. Il presidente Pezeshkian prende tutte e due le cose insieme, mantiene e rafforza i rapporti esistenti con i Brics, i paesi della regione, Cina e Russia, ma tenta anche di negoziare con l’Occidente. Lui ci prova e dice: se ci riuscirò ben verrà. Quando il presidente Trump dichiara che se i Brics creeranno una valuta comune, lui metterà il 100% di dazi sui paesi che vi aderiranno, vuol dire che questo è esattamente il punto debole degli Stati Uniti. Quindi credo che l’Iran, assieme ad altri paesi, abbia scoperto qual è la strada per dare davvero un impulso all’economia. Penso che l’Iran seguirà con serietà questa via, ma al contempo cercherà di mantenere viva anche la speranza per i negoziati con l’Occidente”.

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