Che fare per il Regno?

Nei piani di Keir Starmer la fine dell’estate avrebbe dovuto rappresentare l’inizio della fase due del suo governo: uno scatto in avanti per realizzare quel programma elettorale premiato lo scorso anno dagli esiti delle urne, ma fin qui bloccato da pastoie interne e vincoli esterni. L’autunno alle porte invece ha regalato uno scandalo che è costato il posto alla vice Angela Rayner, un rimpasto di governo e una manifestazione di piazza dell’estrema destra dai toni inquietanti.

La caduta della Regina Rossa

Angela Rayner non era solo la vicepremier e segretario di Stato per l’edilizia abitativa. Non è neanche solo la potente parlamentare considerata una delle più autorevoli candidate alla successione di Starmer. È (o era) l’emblema di una storia molto working class di cadute e riscatto, partita dai sobborghi più emarginati di Manchester e approdata alla stanza dei bottoni del potere britannico. Carismatica e prorompente, la Regina Rossa (da soprannome dei tabloid) era l’unica esponente del governo capace di avere presa su quella fetta di Paese con la quale da tempo il Labour non riesce più a entrare in sintonia e che sempre più, per tutta risposta, si rivolge alle sirene populiste di Farage. La sua caduta per uno scandalo (ironia della sorte) legato a imposte sulla casa non pagate non rappresenta solo una macchia sull’immagine dell’esecutivo ma ha pesanti ripercussioni politiche.

Innanzitutto, lascia Starmer ancora più scoperto sul fianco sinistro, perdendo quel ponte verso l’ala sinistra del partito che risulterà ancor più necessario nelle prossime settimane, quando il governo dovrà presentare una manovra finanziaria probabilmente incentrata su pesanti tagli al welfare. In secondo luogo, apre una competizione per il ruolo di vicepremier (votato dalla base del partito) che rischia di trasformarsi in una sanguinosa lotta intestina tra le diverse anime del Labour, alimentando fratture e divisioni interne.

Inoltre, lo scandalo ha costretto Starmer a un complesso rimpasto che lo ha portato a premiare soprattutto gli esponenti a lui più vicini e leali, dovendo però intervenire su alcune delle caselle cruciali per l’esecutivo (come il Foreign Office), alimentando le accuse di scarsa chiarezza e visione. Infine, Rayner è a lungo sembrata la più indicata a succedere a Starmer, a fine mandato o in caso di scossoni imprevisti anticipati. La sua caduta libera il posto di “erede al trono”, con il rischio di accelerare potenziali manovre per estromettere Starmer. Per molti parlamentari, soprattutto del sud, il rischio di una successione di Rayner a Downing Street era motivo più che sufficiente per sostenere l’attuale Primo Ministro. Ora il quadro rischia di diventare ben più dinamico.

Mentre il Labour si dilania al suo interno, sul fianco destro della politica britannica c’è più vita che mai. Farage vola nei sondaggi e rilascia ormai interviste dispensando già i suoi programmi (vaghi, seppur sensazionalistici) per quando sarà a Downing Street, mettendo in guardia i suoi in vista di possibili elezioni anticipate nel 2027. Ma giungono segnali di vita ancor più inquietanti dalla destra di Reform UK, da quella galassia che sembra ormai trarre totale ispirazione dal movimentoMAGA. La manifestazione “Unite the Kingdom del 13 settembre ha portato in piazza oltre 100.000 persone, ben oltre ogni aspettativa, guidate da alcune delle sigle storiche dell’estrema destra britannica. È l’ennesima prova di come il malessere manifestato con il referendum Brexit, che affligge soprattutto una certa fascia di popolazione inglese, non solo non sia stato riassorbito dall’uscita dall’Unione Europea, ma non sia stato intercettato (e mitigato) nemmeno dallo stesso Labour. Lasciando un buon pezzo d’Inghilterra non solo ostaggio del passato ma anche ostile a qualsiasi futuro.

In cerca di riscatto oltre Manica

Mentre il fronte interno regala solo amarezze, Starmer sembra sempre più focalizzato nel trovare sollievo nella politica estera. Dopo aver consolidato il ruolo di Londra come leader nel supporto all’Ucraina attraverso la cosiddetta ‘coalizione dei volenterosi’, il governo è giunto allo storico passo di riconoscere lo Stato di Palestina. Una mossa senza precedenti che da un lato incrementa la pressione su Israele, dall’altro risponde alle richieste sempre più pressanti della propria base interna dinanzi alle violenze di Gaza. Anche il complicato e spinoso dossier dei rapporti con Washington sembra al momento sotto controllo, grazie anche al poderoso schieramento di tutto il soft power della Casa Reale britannica. La recente visita di Stato di Donald Trump, la seconda nel giro di pochi mesi, sembra aver aiutato il governo britannico a mitigare la scure di dazi (almeno per ora), mentre Trump ha portato in dote nel corso dell’ultima visita investimenti di compagnie tech statunitensi fino a 150 milioni di sterline.

C’è poi però, inevitabilmente, il tema del reset con l’Ue. Gli accordi di maggio hanno aperto la via, ma l’autunno sarà il momento chiave per iniziare a mettere in atto il framework recentemente intavolato tra le parti sui temi più scottanti, dalla youth mobility alla cooperazione industriale in ambito difesa. Proprio su quest’ultimo punto si registrano le prime piccole tensioni, con Londra che spinge per diventare partner di SAFE entro fine novembre, quando partiranno i primi progetti, mentre resta ancora da sciogliere il nodo del contributo economico di Londra per poter accedere allo strumento.

Un dialogo, quello con Bruxelles, sempre più necessario, pur tra mille difficoltà, sul quale però si staglia, di nuovo, il fronte interno. Tra le varie interviste rilasciate nell’ultimo periodo, Farage ha fatto balenare neanche troppo velatamente l’intenzione di stralciare ogni accordo con l’Ue siglato da questo governo. Una posizione che riporterebbe indietro le lancette della storia dei rapporti tra Londra e Bruxelles in maniera forse irreversibile. A Starmer tocca il compito di convincere l’Unione che del Regno Unito ci si possa fidare, pur sapendo che, tra qualche anno, a Downing Street potrebbe esserci il primo inquilino non appartenente né al Labour né ai Tories.  E non sarebbe una bella notizia per il futuro dell’Europa.

Ricercatore nel programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca includono la Politica estera e di sicurezza dell’Ue, i rapporti tra organizzazioni internazionali nel settore della difesa euro-atlantica, i rapporti tra Ue e Regno Unito in ambito di difesa e sicurezza, il terrorismo internazionale e la sicurezza climatica.

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