Apertura sì, ma autoritaria: Mohammed bin Salman cambia l’Arabia Saudita

Difficile stabilire a che punto siamo, davvero, con la diversificazione economica. È possibile tracciare, però, un bilancio di come “Vision 2030” il piano di trasformazione economica dell’Arabia Saudita ‘oltre gli idrocarburi’, stia già trasformando il regno, a sette anni dalla presentazione. Era infatti il 2016 quando il (non ancora) principe ereditario, oggi anche primo ministro, Mohammed bin Salman Al Saud (MbS) lanciava “Vision 2030”: obiettivo rendere indipendente il paese, entro il 2030, dalla rendita energetica. La parola d’ordine, da allora, è stata diversificazione, non soltanto delle entrate economiche, ma anche delle alleanze internazionali.

Perché “Vision 2030” non è solo una strategia economica, ma è anche un progetto nuovo di società, con profonde implicazioni sociali, religiose, culturali e di politica estera. La transizione post-oil è parte di un processo più ampio di ridefinizione del rapporto fra stato e società, nonché dell’identità nazionale saudita. Ed è funzionale al consolidamento della leadership di MbS.

Emerge così, al netto della propaganda, un’innegabile apertura, specie ai gusti globalizzati dei giovani urbani, nonché dei turisti stranieri. Ma un’apertura di stampo autoritario, dunque concessa dall’alto e priva di intermediazioni: un passaggio assai delicato che, nell’ottica autoritaria del potere, necessita di uno stretto controllo sociale per cristallizzare assetti politici e prevenire rischi di sicurezza. L’allentamento dei costumi pubblici e la repressione del dissenso interno sono quindi due facce, solo apparentemente contraddittorie, dell’Arabia Saudita di oggi.

Economia e lavoro: i nuovi sauditi

“Vision 2030” si realizza anche con l’espansione del settore privato. Non c’è dubbio, però, che i mega-progetti, dalla città futuristica NEOM (pronta al 20%) al Red Sea Project, ne siano la vetrina. Prima la pandemia e ora l’inflazione globale stanno allungando i tempi di realizzazione fino, talvolta, a ridimensionare gli ambizioni progetti: i fondi hanno beneficiato del boom energetico post-Ucraina, ma c’è carenza di lavoratori qualificati nonché scarsità di materie prime, sempre più costose (vedi le costruzioni). Non è retorica affermare che il successo della diversificazione economica passi per i giovani: due terzi della popolazione saudita ha meno di 35 anni.

I dati sulla disoccupazione, in calo, sono quindi molto importanti: dal 12% (2016) al 9.7% (secondo quadrimestre 2022), con l’obiettivo del 7% entro il 2030. Il numero delle saudite occupate ha già superato l’obiettivo 2030 del 30% della forza lavoro: oggi sono oltre il 35% dei lavoratori (erano il 22% nel 2017). Incluse le ‘storie da copertina’ esaltate dai media locali, come le oltre 250 donne che hanno completato l’addestramento nelle forze armate (possibile dal 2022), o le prime 32 guidatrici delle ferrovie.

Cambiamenti sociali che diventano culturali. Saudite e sauditi fanno meno figli e si sposano più tardi: un trend già in atto che le riforme, nonché le opportunità, di “Vision 2030” sta rafforzando. D’altronde i nuovi modelli femminili sono, anche, donne che occupano posizioni di vertice, come le numerose ambasciatrici presso i paesi occidentali, raccontate spesso nelle pagine glamour di Vogue Arabia. La capitale Riad è l’epicentro della trasformazione, vero magnete per talenti nazionali e stranieri: lo confermano i prezzi ′alle stelle` di immobili e affitti, nonché la legge che facilita la cittadinanza ai professionisti stranieri altamente specializzati. Un’apertura quindi, all’insegna però del controllo. Il padiglione saudita su giovani e cambiamento globale “Youth Majlis”, ospitato al World Economic Forum 2023 di Davos, era organizzato dalla Misk Foundation: ovvero dalla non-profit di MbS.

Tolleranza e dissenso

Da subito, MbS ha accompagnato il piano con la marginalizzazione della polizia religiosa, invitata a essere “gentile”: la graduale de-wahhabizzazione dello spazio politico-identitario è funzionale al successo delle riforme e della sua leadership (il wahhabismo è l’interpretazione più rigida e conservatrice dell’Islam sunnita, professata nel regno). Non soltanto il divertimento è diventato un’industria, con parchi tematici, festival, cinema e sport, ma è direttamente gestito dallo Stato.

“Vision 2030” non strizza l’occhio soltanto ai tanti giovani sauditi, ma intende forgiare i cittadini di domani. L’Arabia Saudita in trasformazione accelerata riscrive i libri di testo per le scuole per insegnare il suo passato pre-islamico (vedi il patrimonio di al-Ula) e rimuovere i passaggi più intolleranti verso ebrei e cristiani. E introduce il cinese come terza lingua scolastica, nonché lo studio e la pratica dello yoga a scuola e in università. MbS ha dichiarato di voler riportare Riad all’ “Islam moderato” pre-1979: concetto assai fumoso che mal si coniuga con le tante esecuzioni capitali (81 solo il 13 marzo 2021), nonché con gli arresti di attivisti e dei religiosi islamici più ′liberali`. La riprova che l’unico cambiamento ammesso è quello ′dall’alto`.

Meno wahhabismo, più nazionalismo

“Vision 2030” sta ridefinendo le coordinate culturali del regno: meno wahhabismo, più nazionalismo. La traduzione politica è: meno poteri ai religiosi, più poteri al governo. Riad ha infatti istituito il “Giorno della Fondazione“, per festeggiare ogni 22 febbraio la nascita del primo regno saudita. Una data che però non rimanda al 1744, l’anno del celebre patto religioso-politico fra Mohammad Ibn Saud (il capostipite della dinastia saudita) e Mohammad Ibn ‘Abd Al-Wahhab (il teologo del wahhabismo), ma bensì al 1727, quando Ibn Saud assunse il potere fondando il primo stato saudita a Diriyya. Il logo della nuova festività, senza riferimenti religiosi, reca lo slogan unitario “Il giorno in cui cominciammo”.

Il messaggio di MbS è chiaro: l’Arabia Saudita preesisteva l’incontro con il wahhabismo, pertanto è la dinastia reale, non l’élite religiosa, il vero collante dello Stato, che espone sempre più spesso la bandiera. Di fronte a tale mutazione, c’è da interrogarsi sulla reazione dei segmenti più conservatori della società, che spesso abitano le periferie geografiche – e sociali – del regno. “Vision 2030” prevede progetti sull’intero territorio nazionale. Date le profonde diseguaglianze interne, creare lavoro e dinamiche di competizione virtuosa a Tabuk o Najran è assai più arduo, però, che a Riad o Gedda. Il rischio principale potrebbe essere allora quello della (scarsa) inclusione sociale e geografica delle periferie saudite, con future implicazioni di sicurezza. Perché, al netto dei sussidi, l’ambiziosa apertura autoritaria di MbS rischia di lasciare indietro più di qualcuno. Producendo nuove e insidiose diseguaglianze.

Foto di copertina EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

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