L’assassinio di Abe Shinzô e la sua eredità politica

La vita dell’ex primo ministro Abe Shinzô è stata stroncata da due colpi di arma da fuoco (artigianale) venerdì 8 luglio durante un comizio in supporto ad un candidato del Partito Liberal Democratico (PLD), impegnato nelle elezioni per la Camera alta del Parlamento del 10 luglio.

Le informazioni disponibili al momento lasciano intendere che l’omicida, un ex militare della marina giapponese subito arrestato e interrogato, fosse mentalmente instabile. Le prime testimonianze suggeriscono che questi serbasse “rancori verso un’organizzazione religiosa (non identificata dalle forze dell’ordine) e la vicinanza di Abe a questa, non verso il credo politico di Abe”.

Le radici dell’ideologia Abe

Ma quale credo? Il retaggio nazionalista e la formazione nel cuore dell’establishment di destra del PLD ne hanno favorito la rapida ascesa, preservandone l’idealismo di destra. Abe Shinzo manifestò la chiara ambizione a riguadagnare una posizione di preminenza per il Giappone sulla scena internazionale, con un occhio di riguardo per questioni di sicurezza nazionale, prosperità e prestigio.

Abe ereditò tali ideali dal controverso nonno materno, Kishi Nobusuke. Questi fu responsabile per le politiche industriali nello stato fantoccio del Manciukuò, politiche che inclusero il lavoro forzato, quindi ministro delle Munizioni nel governo di Hideki Tōjō, responsabile dell’apertura delle ostilità contro gli Stati Uniti d’America nel dicembre del 1941. Kishi fu sospettato di crimini di guerra di classe A, ovvero responsabile per crimini contro la pace, ma fu in seguito rilasciato e appoggiato ‒ anche segretamente ‒ dagli Stati Uniti, in relazione alla necessità di promuovere il Giappone in chiave anti-sovietica. Successivamente sarebbe divenuto primo ministro del Giappone postbellico tra il 1957 e il 1960.

Il pensiero di Abe presenta similarità sorprendenti con quello del nonno materno, a partire dal desiderio di emularne il combattivo stile politico e le strategie di grande respiro e di taglio conservatore. In vero, Abe ha affermato l’ufficio della presidenza del consiglio (il Kantei) come vera e propria “torre di controllo” dell’operato del governo tutto, cosa non da poco in un mondo politico – quello del Giappone del dopo-guerra –  tradizionalmente a trazione centrifuga e votato alle logiche del consenso. Si pensi ad esempio alle politiche fiscali e monetarie ultra-espansive che hanno preso il nome del primo ministro (Abenomics), emulate in parte dalla Banca Centrale Europea e viste di buon’occhio da Matteo Salvini, o ai trattati di libero scambio tra Unione Europea e Giappone quindi del Trans-Pacific Partnership rivisto. Questi sono solo alcuni degli esempi della leadership esercitata dal Kantei.

Indo-Pacifico libero e aperto

Eppure, Abe assegnò la precedenza ad altre questioni: sicurezza nazionale e recupero del ruolo di “paese di prima lega” su tutti. In primis, l’emendamento della costituzione post-bellica anti-militarista, che limitava il mantenimento e l’utilizzo di armamenti solo a quelli necessari per la legittima difesa nel caso di aggressione esterna. La prospettiva di Abe fu sempre quella di una maggiore autonomia militare, al netto della necessità di allacciare più profondi rapporti con gli Stati Uniti e partner like-minded. La reinterpretazione dell’Articolo IX, avvenuta il primo luglio del 2014 attraverso una decisione dell’esecutivo Abe, e una serie di riforme sulla sicurezza nazionale di portata rivoluzionaria hanno permesso alla terza economia mondiale di esercitare –per la prima volta dal dopoguerra – un ruolo strategico a tutti gli effetti, sul piano militare, economico e di diplomazia pubblica.

Va ricordato che la visione strategica a favore di un Indo-Pacifico libero e aperto, nonché il dialogo di sicurezza quadrilaterale (tra Australia, Giappone, USA e India) sono state appropriate e promosse sì dall’America di Trump, quindi di Biden, ma nascono a Tokyo con la prima amministrazione Abe del 2006-07. Tali iniziative hanno permesso al Giappone il diritto di esercitare una diplomazia più muscolare, soprattutto nei confronti della Cina guglielmina di Xi Jinping, di cui Tokyo cercava di arginare gli irredentismi territoriali (e marittimi) e le spinte verso un’egemonia regionale.

Il Giappone di Abe si è fatto quindi portabandiera della difesa di un ordine internazionale basato sulle regole, anche attraverso la logica della deterrenza/presenza militare in teatri regionali lontani dalle coste dell’arcipelago – si pensi al Mar Cinese Meridionale. Tali misure hanno accompagnato un uso strategico di leve economiche sullo scacchiere indo-pacifico per negare sfere d’influenza alla Cina che ne avrebbero presagito una “dottrina Monroe” con caratteristiche cinesi. In funzione anti-cinese Abe ha dimostrato un supporto quasi romantico a Taiwan e all’India di Narendra Modi, di nuovo riprendendo il copione del nonno, cercando inoltre aperture con la Russia di Putin, seppur senza successo.

Facendo fede ai suoi ideali, Abe fu un fervente nazionalista sensibile alla restaurazione dell’ethos e dei valori tradizionali peculiari alla storia dell’arcipelago. Parte del nazionalismo di Abe fu la sua personale visione storica revisionista, orientata a minimizzare le responsabilità coloniali e di guerra del Giappone durante la prima metà del XX secolo. Va rintracciato proprio nel pedigree e nel credo di Abe, quindi, la sfiducia e i sospetti di Cina e Corea del Sud in primis.

L’eredità di Abe

Vero è che nel 2006-2007 e durante la maggior parte del suo secondo mandato tra il 2012 ed il 2020, esigenze di governo (nonché pressioni americane durante la presidenza Obama) hanno imposto ad Abe di ribadire le dichiarazioni di Kōno del 1993 – sul reclutamento coatto delle cosiddette “donne di conforto” ad opera dell’esercito giapponese – e di Murayama del 1995 – sul colonialismo ed espansionismo del Giappone pre-1945. Alcune eccezioni e colpi di coda, sempre riferiti ad Abe, vanno ritrovati nella visita da premier al santuario dedicato ai morti di guerra di Yasukuni del 2013 e la decisione del Kantei di imporre restrizioni alle esportazioni nei confronti della Corea del Sud a mo’ di ritorsione per dispute storiche rivenute a galla con il governo di Moon Jae-in.

La dipartita di Abe dal governo nel 2020 non ne ha inficiato le capacità di shadow shogun come leader della principale fazione del PLD. Insieme al fratello Kishi Nobuo, attuale ministro della Difesa, Abe ha visto confermata la sua eredità in politica estera e di sicurezza sotto i governi di Suga e Kishida. La visione strategica a favore di un Indo-Pacifico libero e aperto trova maggiori sponde con l’Europa e l’Italia, come evidente dall’allineamento di Tokyo alle sanzioni verso la Russia e agli aiuti a Kyiv, nonché dall’invito di Kishida al summit NATO conclusosi da poco a Madrid.

Sull’onda dell’emotività per l’assassinio di Abe, il PLD vedrà verosimilmente aumentati il numero dei seggi nella Camera alta, se la strada per il tanto agognato emendamento costituzionale voluto da Abe rimane impervia, altre riforme di sicurezza che il PLD eredita dall’ex primo ministro, quali la dotazione di missili di breve e media gittata ad uso offensivo, potrebbero presto vedere la luce.

Foto di copertina EPA/KIMIMASA MAYAMA

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