La risoluzione 2797 del Consiglio di sicurezza ONU: una vittoria per il Marocco?

Il 31 ottobre 2025 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza per l’adozione della risoluzione 2797/2025. La risoluzione – sostenuta da 11 voti a favore, senza voti contrari e 4 astensioni – prevede il rinnovo della missione di peacekeeping Minurso (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara occidentale) nel territorio del Sahara occidentale. A differenza delle risoluzioni precedenti riguardanti questo territorio, quest’ultima riconosce come unica base possibile per il processo di pace nella zona il piano marocchino per l’autonomia della regione sotto la sovranità di Rabat.

Il voto sulla risoluzione ha visto il sostegno di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna tra i membri permanenti, mentre tra quelli a rotazione si sono espressi a favore Panama, Grecia, Somalia, Danimarca, Guyana, Sierra Leone, Slovenia e Corea del Sud; si sono invece astenuti Russia, Cina e Pakistan. Il quindicesimo membro, l’Algeria, direttamente coinvolto nella questione, ha scelto di non partecipare al voto, citando tra le motivazioni il mancato coinvolgimento del Fronte Polisario nel processo e un sostanziale discostamento del testo della risoluzione dal consenso diffuso in sede ONU sui processi di decolonizzazione. Nonostante queste osservazioni – e il prevedibile dissenso da parte algerina – il Marocco segna una sostanziale vittoria nel proprio sforzo diplomatico.

Le origini della divisione

La questione del Sahara occidentale è un elemento centrale della politica estera del Marocco. È ampiamente percepita come una questione che riguarda l’unità e l’orgoglio nazionale e tiene insieme priorità strategiche, opportunità economiche e il posizionamento del Paese come attore chiave nell’Africa settentrionale e occidentale. La maggior parte del suo posizionamento internazionale negli ultimi decenni, delle sue azioni simboliche e concrete, può essere interpretata attraverso la lente dell’ottenimento del sostegno e del consenso internazionale sulla sovranità del Sahara occidentale.

All’alba del 1975 il Sahara Spagnolo, odierno Sahara occidentale, era uno dei pochi territori rimasti come colonia europea sul continente africano. Nel territorio operava il Fronte Polisario, un’organizzazione armata attiva dal 1973 con l’obiettivo di raggiungere l’indipendenza dal dominio spagnolo, che avrebbe dichiarato l’autogoverno e l’indipendenza nel febbraio 1976 con il sostegno dell’Organizzazione per l’Unità Africana (predecessore dell’Unione Africana) e dell’Algeria, ma senza il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Lega Araba, mentre l’Assemblea Generale aveva deciso di riconoscere invece il Fronte Polisario come legittimo rappresentante del popolo Sahrawi senza che però questo garantisse automaticamente l’indipendenza politica. Paradossalmente, parte della base legale per la richiesta del Fronte Polisario era giunta da un parere consultivo della Corte internazionale di giustizia dell’ottobre 1975, richiesto proprio dal Marocco in funzione antispagnola. Alla richiesta del Marocco di riconoscere i legami storici tra le tribù sahrawi e il Sultano del Marocco, la Corte aveva obiettato come questi fossero in realtà solamente parziali, mentre riconosceva un sostanziale consenso a favore dell’indipendenza del territorio – anche sulla base della missione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite organizzata con la risoluzione 3292.

Dalla Marcia Verde al Piano Baker

La questione nella sua forma attuale ha preso forma al termine del 1975, dopo la sollevazione popolare che prende il nome di Marcia Verde: nel novembre di cinquant’anni fa oltre 300.000 civili marocchini si riversarono al confine con l’allora colonia spagnola col supporto del governo e della monarchia marocchina, in un tentativo di costringere il governo di Franco a negoziare la cessione del territorio. Nonostante la condanna in sede internazionale dell’azione marocchina, la Marcia Verde ottenne comunque dei risultati. Complice la situazione interna spagnola, con il regime di Franco oramai prossimo a cedere il passo, e un pericoloso precedente nel vicino Portogallo, in cui il governo autoritario era stato rimosso proprio per la crisi innescata dai conflitti legati alla decolonizzazione, Madrid scelse di cedere alle pressioni senza combattere. Le forze spagnole evitarono qualsiasi forma di scontro aperto con i civili marocchini e il governo spagnolo assunse un ruolo di mediatore tra Mauritania e Marocco, giungendo a un accordo denominato Accordo di Madrid, che garantiva la sovranità su parti del Sahara occidentale rispettivamente ai due paesi, ma riconoscendo, tra le altre cose, la necessità di una forma di consultazione della popolazione locale come previsto nell’articolo 3 dell’accordo.

La Mauritania si ritirò dopo pochi mesi dalla parte di territorio che aveva precedentemente occupato, lasciando al Marocco il controllo de facto dell’intera regione, il che portò all’inizio di una guerriglia tra le forze marocchine e il Fronte Polisario, che nel tempo è divenuta un conflitto a bassa intensità piuttosto costante. L’Algeria, per parte sua, non ha mai avanzato rivendicazioni territoriali, non avendo peraltro preso parte ai negoziati dell’Accordo di Madrid. Il governo di Algeri ha preferito agire sostenendo le richieste della popolazione saharawi, sia espressamente che tramite un sostegno su tutti i livelli alle attività del Fronte Polisario.

La situazione è rimasta appesa a un fragile equilibrio nel corso dei decenni successivi: il Marocco ha continuato a esercitare una sua forma di sovranità de facto che si è progressivamente estesa, nonostante in sede internazionale non venisse riconosciuta la base legale richiesta dalle autorità di Rabat per l’esercizio di questi diritti fino al voto del 31 ottobre scorso.

In questo periodo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha sostenuto diverse proposte volte a indire un referendum per l’autogoverno del popolo saharawi, che però non hanno portato ad alcun risultato definitivo. Nel tentativo di contenere i rischi di un’escalation e aprire la strada allo svolgimento del referendum, nel 1991 è stata istituita una forza di pace conosciuta con l’acronimo Minurso.

Nel 2002 l’inviato speciale del Segretario generale dell’ONU James Barker aveva presentato una proposta per la risoluzione della questione, volta a garantire l’autonomia e l’autogoverno della regione, ma sotto la sovranità de iure di Rabat. Gli Stati Uniti hanno appoggiato la proposta, che alla fine è stata respinta con forza dal Polisario. Una seconda versione della proposta Baker, presentata due anni dopo, prevedeva un referendum sull’indipendenza da tenersi entro cinque anni sotto un governo autonomo ma sempre nel quadro della sovranità marocchina, in modo che la consultazione includesse tanto gli abitanti indigeni della regione quanto i marocchini che nel frattempo si erano trasferiti nella regione, andando a privilegiare però il principio dell’autodeterminazione. Nonostante la proposta fosse un tentativo di mediare tra gli interessi contrapposti, il Marocco scelse di non accettare il piano, che invece aveva incontrato il favore di Algeria e Polisario, facendo arenare il processo e portando lo stesso Baker alle dimissioni.

La svolta africanista del Marocco

Questo stallo, pur permettendo a Rabat di prendere tempo continuando a esercitare di fatto un controllo sulla regione, spinse il Marocco a ripensare la propria strategia e il proprio posizionamento sulla scena internazionale. Garantirsi il sostegno del maggior numero possibile di Paesi sulla questione divenne prioritario, puntando in particolare a quelli occidentali. Gli Stati Uniti, che già si erano dimostrati molto propensi a sostenere la posizione marocchina, divennero nel corso del tempo il principale supporter della loro istanza.

Il sostegno americano, sebbene necessario, non è sufficiente da solo per raggiungere l’obiettivo del riconoscimento. Con l’inizio del regno di re Mohammed VI nel 1999, l’attenzione della politica estera del Paese si è concentrata fortemente su una sorta “pivot to Africa” rispetto all’orizzonte più tradizionalmente legato al mondo arabo. Il tentativo di reinventarsi come faro di stabilità nel continente non è stato pensato solo per attirare l’attenzione dell’Occidente, ma piuttosto come un tentativo di diventare una forza guida per il continente.

In questo senso, dunque, vanno letti i numerosi sforzi compiuti dal Paese di porsi come interlocutore privilegiato di altri partner continentali, tanto su iniziative di high politics quanto su iniziative a carattere più economico. Per citare gli esempi principali, è importante ricordare che la località di Skhirat ospitò la firma dell’accordo per la nascita del governo di unità nazionale libico, dopo numerosi tentativi falliti in altre sedi tradizionali della diplomazia come Ginevra.

Sul versante economico, il Marocco ha tentato di diventare un hub centrale a livello energetico sia a livello continentale, con iniziative come il Pipeline Nigeria-Marocco, sia come punto di snodo verso l’Europa. I rapporti con i Paesi europei, peraltro, sono andati migliorando nel corso del tempo pur mantenendo un andamento ondivago. In particolare, Francia e Spagna hanno mostrato nel tempo un atteggiamento più positivo nei confronti di Rabat. La prima, con una visita di Macron in terra marocchina, ha ripreso grandi sforzi di cooperazione economica dopo anni di sostanziale stasi; mentre la Spagna, con cui le tensioni legate alle exclave di Ceuta e Melilla rimangono comunque all’ordine del giorno, ha intrapreso progetti di ampio respiro col Marocco a partire dai mondiali di calcio condivisi in programma per il 2030, e ha recentemente appoggiato la posizione di Rabat sul Sahara occidentale.

Cosa ancora più importante a livello globale, inoltre, il Marocco è stato uno dei più pronti sostenitori degli Accordi di Abramo, il tentativo della prima amministrazione Trump di facilitare la riconciliazione tra mondo arabo e Israele, diventando il primo paese africano a firmare e ratificare il contenuto della dichiarazione e stabilendo in questo modo delle normali relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Assieme al Marocco ha formalmente aderito agli accordi di Abramo anche il Sudan, ma il processo di normalizzazione portato avanti da Khartoum è ancora oggi incompleto.

Il supporto americano e le scelte dell’amministrazione Trump

In cambio di questo supporto agli accordi di Abramo, il Marocco ha ottenuto il riconoscimento della propria sovranità sul Sahara occidentale tanto da parte israeliana quanto da parte americana, in una dimostrazione piuttosto evidente dell’approccio transattivo alla diplomazia dell’amministrazione Trump.

Pur rimanendo vero il fatto che tutte le amministrazioni americane hanno mostrato una certa benevolenza agli interessi di Rabat nella regione, è indubbio il fatto che con Trump sia avvenuto un salto di qualità in questo senso. L’esito del voto del 31 ottobre ne è la dimostrazione più palese: la riunione in sede ONU è stata preceduta da una serie di segnali lanciati da membri dell’amministrazione americana – tra cui spiccano un’intervista di Stefen Wittkoff alla trasmissione 60 Minutes in cui l’inviato speciale aveva affermato di essere al lavoro di un nuovo accordo di pace tra Marocco e Algeria da raggiungere nel giro di due mesi e di cui il riconoscimento territoriale dovrebbe essere parte, e le dichiarazioni del consigliere Moussad Boulos.

La risoluzione ONU è arrivata, effettivamente, ed è stata salutata in Marocco come un grande successo; tuttavia, la risposta algerina, per quanto non abbia visto una resistenza particolarmente forte, non sembra tale da garantire un buon esito nell’immediato dei possibili colloqui di pace tra i due vicini nel nord del Maghreb, mettendo a repentaglio il piano dell’amministrazione Trump di appuntarsi un’altra pace sul petto. Nel frattempo, i rapporti tra i due paesi (non) proseguono come da prassi, in una situazione di congelamento che è rimasta stabile dal 2021.

Sullo sfondo prosegue il consolidamento del Paese africano, pur rimanendo al tempo stesso diviso: da un lato, una proiezione internazionale che raccoglie successi importanti, dall’altro un’opinione pubblica che mostra segni di irritazione nei confronti di un sistema politico che non riesce a rispondere ad esigenze quotidiane dei cittadini.

Filippo Simonelli ricopre il ruolo Junior Researcher presso lo IAI per il programma “Politica estera dell’Italia”. Sta svolgendo un dottorato di ricerca sulla Public Diplomacy dell’Unione europea nelle crisi internazionali presso l’Università di Siena sotto la guida del professor Francesco Olmastroni.

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