Il recente dibattito presidenziale tra il Presidente Joe Biden e il suo predecessore e prossimo sfidante Donald Trump può aver segnato un punto di svolta nella corsa alla Casa Bianca. La disastrosa performance di Biden potrebbe costargli un margine di voti irrecuperabile. Così forte è la preoccupazione riguardo alle diminuite chance di vittoria del presidente in carica che, mentre il dibattito era ancora in corso, le voci all’interno del Partito Democratico che richiedevano una sostituzione in corsa si moltiplicavano.
Il dibattito è stato inusuale, non solo perché molto anticipato rispetto al solito (a giugno invece che settembre-ottobre), ma anche perché i due contendenti devono ancora essere ufficialmente nominati dalle convention – quella repubblicana a metà luglio e quella democratica nella seconda metà d’agosto. Anche il format non era il solito: non c’era pubblico e i candidati avevano a disposizione un tempo prestabilito per i loro interventi. Queste misure, fortemente volute dalla campagna di Biden, erano pensate per rendere il confronto più ordinato e meno caotico rispetto al primo dibattito presidenziale tra Biden e Trump nel 2020. Tuttavia, per Biden il risultato è stato disastroso.
Trump in controllo, Biden impappinato
L’obiettivo principale del dibattito era per Biden era contrastare le crescenti perplessità riguardo la sua capacità di sostenere altri quattro anni alla guida degli Stati Uniti. A 81 anni, Biden è il presidente più anziano nella storia del Paese.
Ebbene, questo obiettivo è stato mancato totalmente. Il presidente non è più di una volta riuscito a volte a esprimere un pensiero coerente, perdendo il filo del discorso in alcuni casi. Non sorprende che sia stato incapace di portare attacchi a Trump, un candidato molto vulnerabile per i suoi guai giudiziari e per un record da presidente che non è certo eccellente – basti pensare alla disastrosa gestione del Covid e al tentativo di sovvertire le elezioni culminato poi nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.
Trump, al contrario, è stato disciplinato. Le regole del format lo hanno in realtà favorito, impedendogli di andare continuamente fuori binario. Inoltre, i due moderatori non hanno mai fatto fact-checking, così che ha potuto lanciarsi nei suoi lunghi sproloqui fatti di menzogne, affermazioni fuorvianti, insulti, iperboli e teorie cospirazioniste. Ma al netto dei contenuti, Trump è rimasto sempre concentrato e ha dato di sé l’immagine di un uomo energico e in controllo. Non c’è dubbio, dunque, che Trump esca vincitore da questo dibattito.
La prestazione di Biden è stata così deludente che ora si apre una fase di riflessione nel Partito Democratico riguardo la possibilità di un suo passo indietro.
Perché un ritiro di Biden è difficile
Ci sono almeno tre motivi per cui è improbabile che Biden si ritiri. Il primo è la sua convinzione personale di poter sostenere la campagna elettorale, di poterla vincere e di essere il principale antidoto alla minaccia alla democrazia che Trump e i Repubblicani MAGA rappresentano.
Il secondo sono le tempistiche: siamo a fine giugno, la convention democratica è a fine agosto e le elezioni a inizio novembre. Un cambio di candidato presidenziale così vicino alle elezioni è senza precedenti in tempi recenti. L’ultimo esempio risale al 1968, quando il democratico Lyndon Johnson decise di non ricandidarsi. Ma era a inizio anno, non a metà.
Il terzo motivo è la legittimità di una mossa del genere. Biden ha ricevuto l’investitura dalle primarie. Chi lo sostituirebbe non avrebbe la legittimità derivante dal voto popolare.
Tuttavia, nessuno di questi tre ostacoli rende impossibile l’ipotesi di un ritiro. Biden potrebbe persuadersi che sia la scelta migliore per lui, il partito e gli USA. I tempi, pur stretti, sono abbastanza ampi perché un nuovo candidato si imponga all’opinione pubblica e faccia campagna elettorale. E la questione della legittimità, sebbene irrisolvibile completamente, può essere aggirata.
Le alternative
Chi potrebbero essere le alternative? Formalmente, è la convention a eleggere il candidato alle presidenziali. Tuttavia, da oltre 50 anni, la convention è diventata il palcoscenico per l’incoronazione e non per la selezione del candidato presidenziale, compito oggi affidato alle primarie. In questa circostanza straordinaria, potrebbe però tornare a svolgere il suo ruolo originario. Tuttavia, una convention nella seconda metà di agosto reca con sé il rischio di esporre le divisioni interne al Partito Democratico senza che ci sia tempo sufficiente per ricomporle prima di inizio novembre.
Un’alternativa è una convention ‘pilotata:’ i maggiorenti del partito – il Comitato Nazionale Democratico, l’organizzazione dei governatori democratici e la leadership democratica al Congresso dovrebbero unirsi e, in accordo con l’attuale amministrazione, decidere il ticket presidenziale. Si dovrebbe trovare un’intesa su un presidente e un vicepresidente capaci di evitare divisioni interne e raccogliere il massimo consenso possibile tra i delegati del partito, specialmente di quelli alla convention, e tra l’elettorato progressista in generale.
Centrale il ruolo di Harris
Se Biden dovesse effettivamente ritirarsi, la principale candidata a sostituirlo è la sua vicepresidente, Kamala Harris. Tuttavia, Harris non è particolarmente popolare e non è considerata una politica molto capace, specialmente in campagna elettorale. Sebbene sia riconosciuta per la sua intelligenza e acume analitico, non ha dimostrato un grande “naso” politico, continuando a suscitare perplessità. Estrometterla, però, creerebbe divisioni nel partito e nell’elettorato, in particolare tra le donne e i neri, dato che è la prima donna nera a ricoprire la carica di vicepresidente. Metterla da parte ora invierebbe un pessimo messaggio.
In conclusione, o Kamala Harris viene indicata come candidata democratica alle presidenziali oppure Harris stessa decide di fare un passo indietro. In ogni caso, sarebbe necessario selezionare almeno un vicepresidente, se non addirittura un altro candidato presidenziale. A questo proposito, ci sono ipotesi del tutto speculative.
Oltre a Harris, chi altro?
Tra i nomi più discussi figurano i potenti del Partito Democratico, in particolare i governatori. Il più noto e potente tra loro è Gavin Newsom, governatore della California, lo stato più popoloso e ricco degli Stati Uniti, con una forte maggioranza democratica. Newsom si è finora dimostrato un fedele sostenitore di Biden e tentare una corsa presidenziale in circostanze tanto straordinarie sarebbe un azzardo per lui, che preferirebbe puntare al 2028
Altri potenziali candidati al ticket presidenziale sono due governatori del Midwest, regioni decisive nelle elezioni di novembre: J.B. Pritzker dell’Illinois e Gretchen Whitmer del Michigan. Whitmer, in particolare, è una politica raffinata con un certo grado di riconoscibilità nazionale. Un altro di cui si parla è Raphael Warnock, senatore della Georgia, un altro stato chiave (ma essendo nero verrebbe probabilmente escluso da un ticket con Harris).
Da ipotesi di scuola a possibilità reale
Questi sono solo alcuni dei nomi ipotizzati, ma si tratta di speculazioni. Al momento non c’è niente di certo, se non il fatto che che un’ipotesi che fino a prima del dibattito era totalmente fuori dal regno delle possibilità – il ritiro di Joe Biden dalla campagna presidenziale – è ora diventata realistica e plausibile.
Questa possibilità verrà dibattuta tra Biden e i potenti del partito, anche sull’onda di una richiesta crescente dall’elettorato progressista di una sostituzione in corsa del candidato presidenziale. La campagna elettorale del 2024 negli Stati Uniti è oggi incerta non solo per l’esito finale ma anche per l’identità di uno dei due contendenti.