Quei democratici che bloccano l’agenda di Joe Biden

Il 2021 è stato un anno sconfortante per i democratici negli Stati Uniti. Superato l’ottimismo iniziale per la presidenza Biden, ci hanno pensato le varianti Delta e Omicron del coronavirus a frenare l’azione della nuova amministrazione, che aveva dato una fallace accelerata alla campagna vaccinale. Poi il flop in Virginia, il disastro comunicativo della ritirata in Afghanistan e l’inflazione galoppante hanno contribuito a interrompere la luna di miele degli statunitensi con Biden.

Le premesse di un anno difficile in casa dem

Joe Biden ha puntato su due importanti riforme economiche e politiche. Una, il Build Back Better Act (BBB), il più vasto pacchetto di spesa sociale dai tempi della Great Society di Lyndon Johnson, che contiene misure espansive fino a 1.750 miliardi di dollari; l’altra, rappresentata da due provvedimenti distinti (Freedom to Vote Act e John Lewis Voting Rights Advancement Act), con evidenti richiami al Civil Rights Act del 1964, cancellerebbe delle norme discriminatorie e amplierebbe al massimo il diritto di voto, necessità dettata dalle centinaia di restrizioni elettorali introdotte dai repubblicani a livello locale.

La Casa Bianca ha una certa fretta ad approvare queste leggi, se non altro perché la prima scadenza elettorale è già alla finestra e i sondaggi sulla popolarità del suo inquilino mostrano una delusione generale nei confronti del suo operato. Biden è da solo: i tempi della collaborazione tra partiti appartengono a un’epoca lontana e la storia recente non è dalla parte della fazione che governa il Paese.

La riforma fiscale di Donald Trump, ad esempio, entrò in vigore nel dicembre del 2017. Esattamente un anno dopo, i repubblicani persero la maggioranza. Anche Barack Obama, depotenziato (ma non vinto) da lunghissime trattative, riuscì a far passare l’Affordable Care Act (Obamacare) sette mesi prima delle Midterm del 2010. E, come per Trump nel 2018, il decennio si aprì per il Partito Democratico con la perdita del controllo della Camera dei Rappresentanti.

Il “nemico” tra i democratici

Joe Biden potrebbe subire un trattamento analogo a quello ricevuto dai suoi predecessori e il tormento principale del presidente USA aleggia nel suo stesso schieramento. Il rallentamento registratosi nel passaggio dell’agenda Biden si deve a un’intricatissima trama costituita da incontri segreti, compromessi e tradimenti che hanno come protagonisti il Presidente, due senatori, un gruppo di deputati progressisti e una controversa eccezione presente nel regolamento del Senato: il filibuster legislativo.

Le prime frizioni sono emerse tra la Casa Bianca e due senatori moderati: il conservatore della Virginia Occidentale, Joe Manchin, e la parlamentare dell’Arizona, Kyrsten Sinema. La ragione dietro agli sfiancanti colloqui tra Biden e i due è prima di tutto ideologica. Manchin ha contrattato al ribasso per costringere i suoi colleghi a ridurre la portata del Build Back Better Act, sceso da 3.500 miliardi ai 1.750, che tuttavia non hanno accontentato il senatore italoamericano. Perplessità simili anche per Sinema, che, come Manchin per le detrazioni fiscali mensili sui figli a carico, si è scagliata contro l’innalzamento delle tasse per i più ricchi.

Questi scontri avevano convinto Biden a raggiungere un accordo tra i moderati e il “Progressive Caucus”: mettere ai voti, con l’assenso della sinistra, il progetto di legge bipartisan sulle infrastrutture e procedere con il BBB. Ma Biden non aveva fatto i conti con l’insormontabile muro di Joe Manchin, che in diretta su Fox News ha annunciato prima di Natale la fine irreversibile dei negoziati.

Lo scontro sul filibuster

Mentre sul Build Back Better si è raggiunto uno stato di morte cerebrale (è probabile che le singole disposizioni vengano spacchettate in più disegni di legge e poi votati), è sulla riforma elettorale che Manchin e Sinema sono entrati in rotta di collisione con la leadership democratica. Biden è intenzionato ad andare avanti con queste leggi e per riuscirci è disposto a scavalcare il filibuster, che permetterebbe a un membro dell’opposizione di bloccare una legge in aula.

L’unico modo regolare per oltrepassare questo ostruzionismo sarebbe quello di trovare i 60 voti richiesti per accogliere la mozione di chiusura del dibattito (cloture) e passare a un voto a maggioranza semplice. Ma Biden è consapevole di non avere 60 voti e propone quello che alla Camera dei Rappresentanti è già stato fatto nel 1842: cambiare il regolamento e bypassare una volta per tutte il filibuster. L’opzione invocata, in particolare, è quella della cosiddetta nuclear option, usata nel 2013 per le nomine presidenziali dal compianto capo dei democratici al Senato, Harry Reid, e dal suo omologo repubblicano Mitch McConnell nel 2017 per la designazione dei giudici della Corte Suprema.

Per Sinema e Manchin si tratta di un modus operandi irricevibile e pericoloso. “Pur continuando a sostenere questi disegni di legge, non sosterrò azioni separate che peggiorano la divisione che infetta il nostro paese” ha dichiarato Sinema. Le ha fatto eco Manchin: “Non voterò mai per eliminare o indebolire il filibuster”.

Whatever it takes?

Cosa succederà adesso? La vicepresidente Kamala Harris avrebbe la soluzione: un “Whatever It Takes” che, invece di ricordare quello pronunciato da uno stentoreo Mario Draghi nel 2012, suona più come una banalità avanzata per temporeggiare. I democratici si stanno preparando per una sconfitta in aula e il presidente Biden ha di fronte a sé uno stallo, come ha ammesso in seguito agli infruttuosi tentativi di persuasione. Un inequivocabile cenno di resa, quello del presidente degli Stati Uniti. E con le elezioni di Midterm alle porte, quest’amarezza rischia di tradursi in un’astensione di massa. Di impasse non si muore, ma si possono perdere le elezioni.

Foto di copertina EPA/Oliver Contreras/POOL

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