Nel Medio Oriente diviso su Israele, prevale la cautela saudita

Diviso, dunque impotente. Il super vertice arabo-islamico di Riyadh (Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica insieme) ha messo a nudo la frammentazione del Medio Oriente di fronte alla dura offensiva militare di Israele nella Striscia di Gaza. Un’offensiva seguita al 7 ottobre, ovvero all’attacco, con modalità terroristiche, di Hamas contro Israele. Dal summit d’emergenza organizzato dall’Arabia Saudita non è emersa alcuna azione concreta, né proposta nuova: soltanto un simbolico invito all’embargo sulla vendita di armi a Israele. Occorre ricordare però che le armi comprate da Israele provengono per tre quarti da Stati Uniti e Germania, dunque non da partner mediorientali. Chiedendo una risoluzione vincolante che blocchi le azioni militari israeliane, i paesi arabi e islamici ributtano poi, per mascherare le loro divisioni, la ´palla della politica` nel campo del Consiglio di Sicurezza Onu, anch’esso più che mai diviso e bloccato.

Di certo, l’offensiva israeliana su Gaza ha offuscato le divergenze arabe su Hamas, in particolare tra le monarchie del Golfo. La notizia, però, sta proprio in ciò che il vertice organizzato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud non ha deciso: nessuna rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (per chi ha normalizzato i rapporti), né embarghi petroliferi. Insomma, i proclami del presidente iraniano Ebrahim Raisi, presente al summit, hanno ottenuto un palco mediatico ma nessun consenso politico sufficiente a orientare la politica delle principali istituzioni arabo-islamiche.

Per MbS, la prova di leadership regionale è riuscita solo a metà. Infatti, la linea prevalsa è quella saudita (oltreché degli Emirati Arabi) della cautela verso Israele, anche se emergono i limiti di una posizione faticosamente intermedia fra il tradizionale appoggio alla causa palestinese e le recenti aperture a Israele. Perché anche i sovrani del Golfo, al di là dei consueti richiami alla creazione di uno stato palestinese, sembrano non avere idea del ‘come fare’.

Il summit di Riyadh

Nel comunicato finale del vertice congiunto fra Lega Araba (22 paesi) e Organizzazione per la Cooperazione Islamica (57 paesi inclusi quelli arabi), svoltosi a Riyadh il 10-11 novembre, i partecipanti hanno chiesto il cessate il fuoco immediato a Gaza e al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione “vincolante” per porre fine “all’aggressione israeliana”. Nel testo, in cui manca la condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si chiede a tutti gli stati di attuare un embargo sulla vendita di armi e munizioni a Israele, nonché alla Corte Penale Internazionale di indagare sui “crimini di guerra commessi da Israele ”.

La bozza precedente, della sola Lega Araba, non aveva raggiunto la maggioranza dei voti: il testo chiedeva, su iniziativa di Iran e Siria, l’interruzione completa delle relazioni diplomatiche con Israele ipotesi avversata da alcuni paesi. Anche per superare lo stallo, la presidenza saudita ha così riunito i due vertici in un’unica sessione.

MbS condanna Israele ma senza strappi

Il principe ereditario saudita ha dichiarato che “le autorità d’occupazione israeliane sono responsabili di crimini contro la popolazione palestinese” e ha invocato, durante il bilaterale con Raisi, “il rilascio degli ostaggi e dei detenuti”. Il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan ha poi criticato l’inattività dell’Onu, sottolineando la “necessità di ristrutturare la struttura di sicurezza internazionale“.

Eppure, dopo oltre un mese di guerra, il ministro degli investimenti saudita Khalid Al Falih ha affermato che l’ipotesi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele è “ancora sul tavolo, seppur “dipendente da una risoluzione pacifica della questione palestinese”. Le parole di MbS verso il governo israeliano sono state fin qui dure -non aspre però come quelle di Qatar e Turchia –  ma senza strappi.

Il Bahrein, firmatario degli Accordi di Abramo nel 2020, si è spinto un passo più in là, ma anche qui senza arrivare alla rottura: la Camera bassa (Majlis al Shura, senza potere legislativo) ha approvato il ritiro dell’ambasciatore e la cessazione delle relazioni economiche con Israele. Non sono però arrivate conferme né annunci dal governo di Manama.

Anche i media del Golfo riflettono le divergenze fra governi

Le differenti vedute dei governi arabi del Golfo sulla guerra Hamas-Israele e il contesto regionale si riflettono anche sulla stampa araba. Così, la qatarina Al Jazeera sottolinea che i leader arabi e islamici “non hanno un meccanismo per spingere il cessate il fuoco ”, criticando le “parole vaghe” del comunicato finale, utili solo “per il pubblico interno”. Invece, l’emiratino The National si sofferma sulla bocciatura della bozza  in cui si chiedeva lo stop alle relazioni diplomatiche con Israele.

Il vertice invoca l’embargo alla vendita di armi a Israele: è interessante notare però che i paesi firmatari degli Accordi di Abramo sono stati i destinatari, nel 2022, del 24% dell’export di armi israeliane (era il 7% nel 2021). Secondo i dati diffusi dal ministero della difesa di Tel Aviv, i partner arabi hanno comprato da Israele soprattutto droni, ma anche missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Ciò che nel Golfo serve, insomma, a difendersi dagli attacchi delle milizie filo-Teheran.

Il gioco dell’Iran

Il bilaterale di Riyadh fra MbS e Raisi conferma che i sauditi e le monarchie non hanno interesse all’escalation regionale. Razionalmente non ce l’ha neppure l’Iran che sa di non poter vincere una guerra convenzionale. Ma non solo per questo. Infatti, più l’offensiva di Israele a Gaza continua, più gli Accordi di Abramo rischiano di logorarsi: questo sarebbe un punto in favore di Teheran, ostile alle normalizzazioni e a un equilibrio mediorientale di cui gli Stati Uniti sono il regista.

Se però le milizie filo-iraniane aprissero altri fronti di guerra (Libano, Yemen), le monarchie del Golfo percepirebbero una minaccia diretta più forte e ciò accrescerebbe la convergenza con Israele, a discapito così degli obiettivi di Teheran. In fondo, quando si tratta degli attacchi degli houthi dallo Yemen, sauditi, emiratini e israeliani devono già difendersi, di fatto, da missili e droni provenienti dallo stesso nemico. Anche questo fattore ha un peso nella perdurante cautela saudita su Israele.

foto di copertina EPA/IRAN’S PRESIDENTIAL

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