Modi e la sfida elettorale in India

L’ “anti-incumbencyfactor” che spesso penalizza elettoralmente chi è al governo in India, potrebbe negare a Modi il trionfo alle urne che vorrebbe, ma non gli impedirà di governare per i prossimi cinque anni. Le sette fasi del processo elettorale hanno visto un possente apparato tecnico e burocratico – macchine elettroniche di voto, scrutatori, esercito, polizia, ecc. – spostarsi in diverse parti del paese per allestire i seggi per gli oltre novecento milioni di elettori. I risultati sono stati mantenuti segreti e verranno pubblicati tutti insieme il 4 giugno. Ripensando ai molti problemi di alcune delle elezioni regionali più recenti da noi, potremmo trarre più di una lezione dall’efficienza di questa macchina, cui Delhi affida la pretesa di essere “la più grande democrazia del mondo”.

“La più grande democrazia del mondo”

La democrazia indiana è certamente vitale e l’alternanza funziona, ma il clientelismo e il voto di scambio imperano. Poi ci sono le caste. Il loro peso economico e sociale è andato diminuendo, ma conservano un fortissimo carattere identitario e rappresentano – non ovunque, non sempre, ma spesso – uno strumento possente di formazione del consenso politico.

Casta e classe non sono la stessa cosa, contrariamente a quanto molti pensano: un indiano di casta “alta” (quelle dei bramini, dei guerrieri e dei commercianti) può essere poverissimo e un “intoccabile” miliardario. Possono avere professioni e contatti sociali molto diversi fra loro, ma tendono a sposarsi prevalentemente all’interno della loro casta (meno nelle grandi città, quasi obbligatoriamente nelle zone rurali). L’India urbana e cosmopolita che guarda al futuro vorrebbe liberarsi di quello che considera un fardello del passato, ma ci vorrà del tempo. Intanto in vari stati dell’Unione indiana si indicono censimenti delle caste, col fine non dichiarato ma evidente di gestirle politicamente.

La popolarità di Modi

Narendra Modi vincerà le elezioni, il problema è di quanto. Egli può contare su un apparato propagandistico e di controllo mediatico bene oliato e la sua popolarità assume a volte un carattere di culto idolatrico. Una campagna elettorale martellante, e la crisi che attanaglia il partito del Congresso gli ha permesso di rendere marginali Rahul Gandhi (dietro cui si staglia l’ombra sempre più scespiriana della madre, Sonia) e i suoi alleati regionali nel Nord, e di fare progressi anche al Sud, tradizionalmente più ostile al BJP. Una politica di riforme a spettro largo in economia, e un massiccio programma di modernizzazione di infrastrutture inadeguate e spesso fatiscenti, ha ulteriormente rafforzato la sua presa sul voto delle nuove borghesie urbane. I trasferimenti sociali e i sostegni al reddito hanno trasformato la realtà di molte zone rurali, provocando un analogo spostamento verso il BJP di una base elettorale da sempre legata al Partito del Congresso, il quale resta forte nella minoranza mussulmana.

La maggioranza assoluta dei seggi nel nuovo Lokh Saba sembrava a portata di mano, ma nelle ultime settimane il quadro si è fatto più incerto. Il Financial Times ha scritto che fra i nuovi ceti produttivi cresce lo scontento per l’appoggio di Modi ai grandi monopoli privati, i quali – si afferma – rischiano di deformare il mercato e ostacolare la concorrenza: le accuse rivolte dalla magistratura al gruppo Adani, vicinissimo a Modi, ne sembrerebbero una conferma. Sui ritardi e le inefficienze in alcuni programmi per le zone rurali soffia il Congresso, che grazie a un Rahul Gandhi meno riluttante è riuscito a dare nuova vita alla sua alleanza con vari partiti regionali con il nome di I.N.D.I.A.

Le relazioni Italia-India

Giorgia Meloni e Narendra Modi hanno stabilito un buon rapporto personale, che ha favorito una ripresa molto decisa delle relazioni politiche e commerciali. I loro rispettivi percorsi personali e politici – fatte le debite proporzioni – sono simili: Modi viene dall’estremismo intollerante dell’RSS (una formazione fortemente nazionalista, modellata originariamente su quelle mussoliniane) e ha stemperato (ma solo in parte) i toni più accesi per assumere un approccio pragmatico, e tatticamente abile, alla gestione dell’economia e alla promozione delle riforme, ampliando la sua area di consenso e rafforzando la sua presa sul potere.

Permangono per entrambi dubbi sulla natura – e la durata – delle scelte di ortodossia democratica, che per Modi sono decisamente più forti. Che il suprematismo induista risponda o meno al suo intimo convincimento, Modi è al tempo steso un tattico abilissimo ed è lecito sperare – anche se il dubbio è legittimo –  che non si spingerà sino al punto di  mettere in crisi un impianto istituzionale complesso ma fragile, col rischio di far sì che l’India resti il paese più popoloso del mondo, ma non più “la sua più grande democrazia”.

Un’India induista e intollerante

Il nativismo anti-mussulmano di Modi ha assunto toni spesso parossistici nella campagna elettorale, che piacciono allo zoccolo duro più estremista dei suoi sostenitori, ma preoccupano settori importanti dell’opinione pubblica e delle élites laiche, il cui voto resta per lui fondamentale.

L’idea di un’India induista e intollerante, fondata su principi religiosi piuttosto che sull’eredità liberale della Costituzione dei padri fondatori, potrebbe avere effetti devastanti in un paese che ha avuto nella laicità e la tolleranza religiosa, etnica e culturale il suo carattere distintivo e il suo punto di forza.

Il raggiungimento della maggioranza assoluta, o meno, segnerà per lui non solo il discrimine fra successo e trionfo, ma potrà far capire meglio se la sua India sarà governata dal pragmatismo della realtà o se prevarrà la seduzione di nuove e pericolose identità.

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