“Avremo dunque una teocrazia? No: la fede ci rende uniti, la scienza ci rende liberi. Non permetteremo affatto che le velleità teocratiche di alcuni nostri rabbini prendano piede: sapremo tenerle ben chiuse nei loro templi, come rinchiuderemo nelle caserme il nostro esercito di professione. Esercito e clero devono venire così altamente onorati come esigono e meritano le loro belle funzioni; nello Stato, che li tratta con particolare riguardo, non hanno da metter bocca, ché altrimenti provocherebbero difficoltà esterne e interne “ (Theodor Herzl, Lo Stato degli Ebrei, Treves editore, 2012, pagg. 129-130).
Lo “Stato ebraico”
Già nel 2018 la Knesset – il Parlamento israeliano – aveva approvato la controversa “legge della nazione“, una legge fondamentale con uno status quasi costituzionale, che sanciva nei fatti la transizione di Israele da “stato ebraico e democratico” – un ossimoro secondo alcuni; un tentativo in parte riuscito secondo altri di conciliare lo “stato degli ebrei” concepito da Herzl e dagli altri padri fondatori del sionismo, uno stato cioè dove gli ebrei potessero autodeterminarsi in una nazione, con il principio di una democrazia per tutti i suoi cittadini – ad uno “stato ebraico”.
La legge violava lo stesso spirito della Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Con Israele definito dalla legge “stato-nazione del popolo ebraico” il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia che nulla può dire circa il carattere dello stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono cittadini con pari diritti. Pari diritti individuali sì, ma non i diritti collettivi di una minoranza nazionale, che dovrebbe potere conseguire attraverso strumenti legislativi e atti concreti uno status non inferiore a quello degli ebrei israeliani.
Radicalismo e discriminazioni
La legge rifletteva l’offensiva del radicalismo di destra, con norme volte a limitare la libertà di espressione – soprattutto nel mondo delle ong e dei movimenti dediti alla difesa dei diritti umani – l’indipendenza del potere giudiziario, in particolare i poteri della Corte suprema, il pluralismo delle opinioni, in una società in cui larghi strati dell’opinione pubblica appaiono indifferenti o anche ostili ai vincoli dello stato di diritto e intolleranti del dissenso.
Il dualismo fra “ebraico” e “democratico” esiste fin dalla nascita dello Stato di Israele; basti pensare alla Legge del ritorno che consente agli ebrei del mondo di diventare cittadini di Israele immigrando nel paese. Che Israele sia uno stato “ebraico”, non solo perché luogo di rifugio dalle persecuzioni di un popolo disperso, ma perché l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, il calendario, i simboli pubblici) è certamente legittimo. Ma non è accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie. Israele è lo Stato degli ebrei, ma rispettoso dei diritti di tutti i suoi cittadini. La legge ha però codificato una discriminazione. Inoltre, uno Stato che non ha confini certi e riconosciuti come può definirsi? Se i territori palestinesi fossero annessi, come si configurerebbe Israele? Come lo stato-nazione del popolo ebraico ? Si giungerebbe così anche formalmente ad uno Stato binazionale, ma non egualitario, non democratico, con diritti pieni solo per ebrei.
L’identità dello Stato per il governo Netanyahu
Con il nuovo governo formatosi dopo le elezioni del novembre scorso, nel quale è decisivo il peso dei due partiti ultraortodossi e dei fondamentalisti del “Sionismo religioso”, con forti pulsioni verso il tribalismo, l’intolleranza, Israele non sarà piu’ neppure sul piano normativo lo “Stato degli ebrei”, nel senso del sionismo liberale di Herzl o di quello di matrice socialista, né tanto meno lo “Stato degli israeliani”, una democrazia piena ed egualitaria per tutti suoi cittadini. Diventerà uno “stato ebraico”, per mano di una bellicosa minoranza del paese.
Quali i passi più significativi se gli accordi di coalizione pattuiti fra il Likud e gli altri partiti saranno pienamente attuati? In essi si insiste compulsivamente sull’identità “ebraica” del Paese. Si inventano agenzie parti di ministeri dedicate a tal fine, in particolare una Autorità per l’identità ebraica e un incarico concernente i rapporti fra le scuole e la società civile affidati ambedue a Maoz, leader di Noam, partito omofobo e integralista, peraltro dimissionario accusando il resto del governo di “tradire” le intese.
La legge ribadisce il divieto di spazi egualitari di preghiera al Muro del Pianto, per uomini e donne, nonché per le molteplici e spesso confliggenti correnti dell’ebraismo, nonostante accordi negoziati in tal senso, nel tempo disattesi. Si statuisce persino una modifica della Legge del ritorno mirante ad abolire la clausola per cui dagli anni Settanta un nonno ebreo è sufficiente per il diritto all’aliya e alla cittadinanza israeliana. Si rifiutano di riconoscere atti di conversione celebrati da rabbini non ortodossi in Israele o comunque da rabbini ortodossi non soggetti al controllo del rabbinato centrale come viatico alla cittadinanza, atti che la Corte suprema aveva consentito con una sentenza nel 2021.
In sintesi, Israele, Paese nato sull’anelito del costruire una nazione nuova e vecchia al tempo stesso, multiculturale e unita, è scosso oggi dal pericolo di uno scisma profondo al suo interno che potrebbe disgregare la società.
Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN