Le nomine che stanno annunciando Trump e il suo “transition team” per i vertici dell’Amministrazione federale sono a dir poco sconcertanti. Come minimo lasciano perplessi quanti, da questa parte dell’Atlantico, cercano di fare previsioni su come la Presidenza Trump si muoverà in concreto nei prossimi mesi senza per ora trovare risposte.
Se si escludono (forse) il Senatore della Florida Marco Rubio per il ruolo di Segretario di Stato, e il deputato, sempre della Florida, Mike Waltz per il ruolo di Consigliere per la sicurezza, entrambi considerati dei falchi ma tutto compreso affidabili, e si esclude Elon Munsk che è un caso sé, gli altri designati per incarichi di vertice sembrano essere accomunati da due precise caratteristiche: l’incompetenza e la totale fedeltà al capo supremo.
Le nomine controverse di Trump
I casi più clamorosi sono quelli di Pete Hegseth, prossimo Segretario alla Difesa, giornalista della Fox News senza alcuna specifica esperienza di difesa o di forze armate e accreditato solo di una partecipazione come ufficiale di fanteria alle campagne in Iraq e Afghanistan; di Matt Gaetz, prossimo Ministro della Giustizia, deputato della Florida, noto soprattutto per una indagine a suo carico per reati sessuali a danno di una minorenne; e di Robert Kennedy jr, prossimo Segretario alla Salute, membro disconosciuto del clan dei Kennedy, noto per le sue campagne di delegittimazione dei vaccini, e ricompensato da Trump per avere rinunciato a completare la sua campagna per le presidenziali facendo convergere i voti dei suoi (scarsi) sostenitori su Trump.
Questi sono i nomi più noti e decisamente più controversi. Ma anche gli altri della lista dei designati, si distinguono per radicalismo, per scarsa dimestichezza con le materie che diventeranno di loro rispettiva competenza, in taluni casi per evidente conflitto di interessi, ma anche e soprattutto per la totale e acritica adesione alle idee e al programma del Presidente eletto.
In questo senso suscitano perplessità le nomine di Tulsi Gabbard, del tutto priva della benché minima esperienza nel settore, a responsabile del coordinamento delle varie Agenzie federali che compongono il sistema dell’intelligence americana, di Kristi Noem, sconosciuta governatrice del Sud Dakota, alla testa del Dipartimento per la Sicurezza Interna, o di Chris Wright, imprenditore del settore delle energie fossili noto per le sue campagne negazioniste sul clima, a Segretario per l’Energia.
Fa eccezione il caso di Elon Musk designato, insieme a Vivek Ramaswamy (altro candidato alle presidenziali che aveva tempestivamente rinunciato alla candidatura), alla testa di un istituendo Dipartimento per l’Efficienza Governativa. E fa eccezione perché Musk è una personalità troppo ingombrante e straripante per ipotizzare che possa solo occuparsi di come tagliare posti e funzioni nelle varie amministrazioni federali. E non sia tentato invece di assumere un ruolo più inquietante di suggeritore (più o meno occulto) di Trump, se non addirittura di diventare nei fatti una specie di Presidente ombra, perlomeno fino a quando non avrà blindato i suoi molteplici interessi di “businessman” di successo con attività imprenditoriali nei campi più disparati.
Trump non può non essere consapevole che queste nomine sono discutibili e sono contestate anche all’interno del Partito Repubblicano. Al punto che sarebbe tentato di farle passare evitando il vaglio di queste designazioni da parte del Senato, cui spetta il compito di esaminare i candidati per le posizioni apicali, utilizzando un “escamotage” procedurale che consente la possibilità di nomine temporanee quando il Senato non è in sessione.
Sembra verosimile quindi che Trump intenda forzare la mano a quei membri del suo partito che oggi sono più a disagio e in difficoltà ad approvare le più clamorosamente contestabili di queste nomine. E che intenda farlo per far passare il messaggio che ormai il Grand Old Party è completamente “trumpizzato” e di fatto è diventato il partito di Trump. E che il Presidente eletto intende attuare il suo programma, ancorché confuso e per molti aspetti contradditorio, senza sottostare ai vincoli e alle limitazioni, a quel sistema dei “cheks and balances”, che prima di Trump caratterizzava una democrazia funzionante come quella americana.
La frustrazione europea tra Washington e Bruxelles
A noi europei resta la frustrazione di assistere impotenti al formarsi della nuova amministrazione americana secondo un processo che sembra confermare che Trump intende mantenere la parola data in campagna elettorale, con tutti i rischi che un simile scenario comporta per l’Europa.
Né ci possiamo consolare guardando a come procede a Bruxelles il processo di conferma della nuova Commissione europea. Nella Ue infatti il sistema dei “checks and balances” funziona anche troppo bene al punto che i veti incrociati di popolari e socialisti (unicamente motivati da questioni di politica interna di alcuni Paesi membri) non hanno ancora consentito di formalizzare la composizione del nuovo esecutivo europeo, rischiando di rinviarne l’insediamento oltre la data prevista, o nella peggiore delle ipotesi di provocare una gravissima crisi istituzionale.