La tragedia di un fallimento del negoziato sul nucleare iraniano

Il ritiro del personale non-essenziale da alcune sedi diplomatiche e basi militari americane nel Golfo Persico è l’ultimo dei segnali che i negoziati fra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare di quest’ultimo siano sul punto di arrestarsi. Al fallimento diplomatico seguirebbe un’escalation che potrebbe precipitare in un conflitto che coinvolga gli Stati Uniti, Israele, l’Iran e altri stati della regione. Dopo aver ordinato l’uscita degli Stati Uniti dal precedente accordo nucleare, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, durante il suo primo mandato, il presidente USA Donald Trump presiederebbe così al collasso forse definitivo della diplomazia nucleare con l’Iran. La tragica ironia è che il fallimento avverrebbe in un contesto strategico che, rispetto a dieci anni fa, sembra in realtà più favorevole a un’intesa.

Le premesse strategiche del 2015 e del 2025

L’accordo del 2015 si fondava sui seguenti assunti strategici: la dimensione normativa degli impegni di non-proliferazione per creare uno spazio di interazione paritario tra Stati Uniti e Iran; la centralità dell’UE e in particolare dei tra stati europei firmatari dell’accordo, ovvero Francia, Germania e Regno Unito (E3); la natura multipolare dell’accordo, concluso anche da Russia e Cina.

Ma il JCPOA aveva anche punti deboli significativi: l’esclusione dei rivali arabi dell’Iran come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e soprattutto l’assenza di disposizioni concrete che potessero contribuire a trasformare le relazioni tra Iran e Stati Uniti da conflittuali a stabili, vista anche la forte opposizione all’accordo negli Stati Uniti e in Israele. È su queste basi che Trump decise di ritirarsi nel 2018, aprendo la strada a un periodo di deterioramento delle relazioni con l’Iran.

Nel contesto attuale, un eventuale accordo poggerebbe su presupposti diversi. In primo luogo, Trump e i suoi più stretti collaboratori sembrano vedere l’accordo non solo come uno strumento di non-proliferazione, ma come leva strategica per una distensione a lungo termine.

In secondo luogo, il formato dei negoziati è passato da un quadro multilaterale a uno bilaterale. L’Europa, che pure era stata architetto del JCPOA, ha visto il suo ruolo ridursi. Oggi l’influenza degli E3 è confinata al cosiddetto meccanismo di “snapback”. Quest’ultimo è un residuo del JCPOA che consente la riattivazione delle sanzioni ONU sull’Iran revocate in base all’accordo. Tuttavia, l’attivazione dello snapback sarebbe una mossa una tantum e ad alto rischio. Teheran ha minacciato misure di ritorsione come l’espulsione degli ispettori nucleari dell’ONU e l’intensificazione delle sue attività nucleari.

In terzo luogo, la dimensione regionale è tanto centrale ora quanto era stata trascurata nel 2015. Arabia Saudita e gli Emirati hanno in passato hanno sofferto in prima persona le tensioni tra Stati Uniti e Iran (dal sostegno di quest’ultimo ai ribelli Houthi in Yemen a un attacco contro le centrali petrolifere saudite nel 2019), sono or a favore di un accordo. Quest’ultimo sarebbe ancheuno strumento di stabilizzazione regionale.

Ostacoli politici, soluzioni tecniche

Nonostante queste premesse, sussistono ostacoli politici forse insuperabili. Il maggiore rimane la determinazione dell’Iran di mantenere una capacità autonoma di arricchimento dell’uranio, una componente critica di un programma civile che può però essere dirottata verso un uso militare aumentando il livello di arricchimento. Altre questioni includono il regime di ispezioni e i tempi e modi dell’alleggerimento delle sanzioni sull’Iran.

Sebbene sia gli Stati Uniti che l’Iran abbiano mostrato preferenza per una soluzione diplomatica, cinque round di colloqui a Muscat e a Roma non hanno portato a nessun passo avanti significativo. Semmai, la distanza tra le parti sembra essersi ampliata. Dopo aver inizialmente lasciato intendere di essere pronta ad accettare una limitata capacità di arricchimento iraniana, l’amministrazione Usa è via via diventata più intransigente, tanto che per Trump sembra che l’opzione “zero arricchimento” sia un’invalicabile linea rossa.

È possibile che il presidente Usa stia ricorrendo a una tattica negoziale massimalista per strappare all’Iran maggiori concessioni. La decisione di Washington di sostenere una risoluzione di censura dell’Iran, presentata dagli E3, presso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sarebbe in linea con questa strategia. La risoluzione fa seguito alla pubblicazione di un rapporto molto critico dell’Aiea, che non solo ha confermato ancora che l’Iran ha sviluppato attività nucleari militari fino ai primi anni 2000, ma ha anche sollevato serie preoccupazioni sulla presenza di una quantità indefinita e non dichiarata di materiale fissile in Iran. Sebbene la risoluzione non preveda il deferimento automatico dell’Iran al Consiglio di Sicurezza Onu, rappresenta un passo preparatorio verso la attivazione dello snapback da parte degli E3.

La maggiore pressione potrebbe forse spingere l’Iran a cooperare di più con l’Aiea, ma il successo della diplomazia dipende dalla disponibilità degli Stati Uniti a scendere a compromessi.

L’amministrazione Trump ha avanzato la proposta di concedere all’Iran di arricchire l’uranio a bassi livelli fino a quando un consorzio regionale, gestito anche dai vicini arabi dell’Iran, non sia operativo. A quel punto l’Iran dovrebbe cessare ogni attività di arricchimento. La leadership iraniana non ha però mai dato segnali di essere disposta a rinunciare all’arricchimento, che considera una fondamentale conquista tecnologica e industriale, per cui ha pagato sopportato decenni di pressione diplomatica, sanzioni, sabotaggi e assassinii di scienziati nucleari.

Il JCPOA fu concluso solo dopo che l’amministrazione Obama accettò una capacità di arricchimento iraniana, sebbene sotto monitoraggio completo e per un decennio e più molto limitata. Il precedente dimostra che l’arricchimento zero non è necessario per creare fiducia nella natura pacifica del programma nucleare iraniano. Ciò che conta è la presenza di vincoli tecnici, di un rigoroso monitoraggio internazionale e di una piena trasparenza per prevenire la diversione militare del programma.

Basi solide, prospettive cupe

Se l’Amministrazione Trump dovesse mantenere la sua richiesta di zero arricchimento, spinta dalla percezione che l’Iran è più debole dopo gli scontri con Israele dello scorso anno e su pressioni di Israele stesso e dei suoi sostenitori in Congresso, le prospettive di un accordo potrebbero svanire.

Sarebbe una grande tragedia se il negoziato naufragasse per l’inflessibilità degli Stati Uniti. Percependo, o sostenendo, di aver esaurito l’opzione diplomatica, l’Amministrazione Trump potrebbe decidersi a bombardare gli impianti nucleari iraniani. Il rischio di instabilità regionale aumenterebbe a dismisura, perché è difficile che l’Iran stia a guardare. In rappresaglia, potrebbe attaccare di nuovo Israele, dirigere i suoi alleati a colpire le forze americane nell’area e minacciare le linee di navigazione commerciale nel Golfo.

La tragedia sarebbe ancora più grande non solo perché è evitabile, dato che entrambe le parti vogliono evitare un conflitto, ma perché le basi per un accordo sostenibile sono in realtà più solide oggi di quanto non fossero dieci anni fa.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

Ricercatrice nel programma di ricerca IAI “Multilateralismo e governance globale”, dove collabora alle attività nell’ambito dell’EU Non-Proliferation and Disarmament Consortium (EUNPDC) e svolge attività di ricerca nel campo della non-proliferazione e del disarmo.

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