La strana guerra in cui tutti hanno vinto e tutti hanno perso

È indice dell’assurdità dei tempi in cui viviamo che una guerra potenzialmente disastrosa per la sicurezza internazionale si è – per il momento – interrotta con i ringraziamenti di uno dei paesi aggressori, gli Stati Uniti, al paese aggredito, l’Iran.

L’attacco contro una base americana in Qatar, condotto in rappresaglia dall’Iran contro i bombardamenti americani del suo programma nucleare, ha fatto temere che il conflitto potesse aumentare in intensità e allargarsi al Golfo. Invece, può avere raggiunto l’obiettivo cercato dagli iraniani, ovvero usare un attacco preventivamente comunicato a Washington per ristabilire un minimo di deterrenza formale e allo stesso tempo dare agli Stati Uniti la via d’uscita dall’escalation. A questo bizzarro gioco delle parti si è prestato anche Israele, che ha ritenuto di dover assecondare il desiderio del presidente Donald Trump di interrompere le ostilità.

La tregua, in vigore solo da poche ore, è già traballante. Non è possibile pertanto anticipare se seguirà la stessa traiettoria di quella con Hamas, che Israele ha infranto poco più di un mese dopo, oppure di quella con Hezbollah, che invece ha retto, sebbene Israele continui a operare in Libano. È possibile però fare una valutazione istantanea di ciò che hanno ottenuto e di ciò che hanno perso Israele, Stati Uniti e Iran.

Tutti vincitori

Israele ha buone ragioni per ritenersi soddisfatto. Ha decapitato la leadership delle forze armate regolari e soprattutto delle Guardie rivoluzionarie, paralizzando inizialmente la catena di comando del nemico. Ha ucciso una dozzina di scienziati e pesantemente danneggiato le infrastrutture nucleari dell’Iran, riducendone considerevolmente la capacità di riattivare un programma nucleare su scala industriale. Ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree e limitato la letalità del programma balistico intercettando la maggioranza dei missili e distruggendo almeno un terzo dei lanciatori. In generale ha dimostrato non solo netta superiorità militare e tecnologica sull’Iran, ma anche una profonda penetrazione del sistema di sicurezza e di intelligence della Repubblica islamica.

Anche gli Stati Uniti possono dire di aver conseguito risultati.  Hanno contribuito a distruggere parte del programma nucleare iraniano e soprattutto a colpire il sito iper-fortificato di Fordow, mostrando l’impressionante capacità di fuoco della bunker buster, la ormai famosa GBU-57. Dimostrandosi pronti all’uso della forza e allo stesso tempo optando per un attacco mirato, hanno intimorito gli iraniani e rassicurato gli israeliani in misura sufficiente da indurli ad accettare una tregua, ponendosi come pacificatori.

Lo stesso Iran può dire di uscire dal conflitto ferito ma non sconfitto. Dopotutto, ha resistito alla pesante aggressione da parte della prima potenza militare della regione e della maggiore potenza del mondo. Ha ristabilito rapidamente la catena di comando avviando la risposta militare contro Israele, sparando missili fino a pochi minuti prima della tregua (e forse dopo). Ha attaccato la più grande base militare americana del Golfo costringendone l’evacuazione anticipata. E la Repubblica islamica sembra essere rimasta in controllo, godendo anzi di un condizionato appoggio popolare nella difesa della nazione.

Quando tutte le parti in causa in un conflitto ritengono di aver ottenuto qualcosa, emergono le condizioni perché una tregua si trasformi in pace duratura. Purtroppo non è necessariamente questo il caso della guerra in questione. Infatti, se è vero che tutti hanno ottenuto qualcosa, è altrettanto vero che nessuno può dirsi pienamente soddisfatto, e questo apre anche a uno scenario di ripresa delle ostilità.

Tutti sconfitti

Israele ha danneggiato ma non distrutto il programma nucleare iraniano. Similmente, ha ridimensionato ma non eliminato la capacità balistica iraniana. Ha mostrato che la sua sfolgorante campagna militare ha problemi di sostenibilità, visti gli immensi costi in termini di mezzi e fondi dello sforzo di difesa antimissile e di bombardamenti a lunga distanza. Nonostante il numero contenuto di vittime civili, ha visto le sue città sotto una pioggia di missili che hanno prodotto ingenti danni materiali. Pur avendo ottenuto la partecipazione americana e portato gli europei ad allinearsi, ha dato un ulteriore colpo alla sua vacillante reputazione per aver aggredito uno stato in assenza di minaccia imminente, e ha alimentato la percezione di aver affrettato un attacco anche per sviare l’attenzione dalla distruzione di Gaza. Soprattutto Israele non ha ottenuto quello che aveva ammesso essere il suo obiettivo, ovvero destabilizzare la Repubblica islamica e favorire le condizioni per un potenziale cambio di regime.

Dal canto suo, l’amministrazione Trump si è fatta cogliere di sorpresa dall’attacco israeliano, e ha dovuto reagire piuttosto che plasmare gli eventi. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione non sa che fine abbia fatto l’uranio arricchito che potenzialmente potrebbe trasformarsi in materiale fissile per 8-9 bombe, e che era stato indicato dal governo israeliano come la causa più prossima a giustificazione dell’attacco. Il programma nucleare iraniano è seriamente ridimensionato, ma è anche diventato molto più opaco. Oggi l’Iran ha più motivi per cercare la bomba di quanti ne avesse prima dell’attacco israeliano a cui gli americani si sono uniti. Infine, gli Stati Uniti hanno cercato una tregua, non la resa incondizionata che Trump aveva in precedenza vagheggiato.

Senz’altro sconfitto è anche l’Iran, che non ha saputo proteggere il simbolo dell’orgoglio nazionale e della resistenza antiamericana, quel programma nucleare costato centinaia di miliardi di dollari in costi diretti e molti di più in costi indiretti per effetto delle sanzioni. L’Iran ha subito l’umiliazione di vedere i suoi vertici militari uccisi nelle loro case e la sua organizzazione di intelligence penetrata con facilità da quella israeliana. E per quanto l’attacco israeliano abbia generato un effetto di ricompattamento della popolazione a difesa della nazione, questo supporto non si è trasferito sulla Repubblica islamica. Anzi, l’attacco israeliano ha reciso un altro elemento del patto sociale fra Repubblica islamica e popolazione, ovvero la garanzia di stabilità che il governo iraniano aveva assicurato in un venticinquennio in cui il resto della regione è ripetutamente sprofondato in conflitti.

Futuro incerto

Non è da escludere che la tregua riapra la strada alla gestione diplomatica della disputa nucleare tra USA e Iran che l’attacco israeliano ha interrotto. L’Iran dovrebbe offrire massima trasparenza all’agenzia Onu per l’energia atomica e accettare severi limiti a un programma già ridimensionato. In cambio, otterrebbe di mantenere una capacità nucleare autoctona e un forte allentamento delle sanzioni.

Ma è altrettanto verosimile, forse più probabile, che la tregua sia il preludio a una ripresa del conflitto. Se le parti restano su posizioni massimaliste – gli Usa insistendo sullo smantellamento del programma nucleare e sul ridimensionamento di quello balistico, l’Iran refrattario a rinunciare all’arricchimento dell’uranio – la diplomazia non farà strada. Al contrario, servirà solo a dare modo a Israele di preparare un nuovo attacco e all’Iran tempo per ricostituire parte delle sue difese aeree e capacità balistiche.

Al momento di scrivere, Israele già lamenta una presunta violazione iraniana di una tregua che potrebbe durare meno di un giorno. Se così fosse, l’annuncio della tregua da parte di Trump in un tweet con tanto di firma presidenziale non farebbe che dare una tonalità surreale e farsesca al dramma in corso.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

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