La guerra ibrida di Lukashenko con il favore di Mosca

Scontri al confine, accampamenti nel bosco gelato, profughi che cercano di strappare il filo spinato e militari che sparano in aria: la crisi dei richiedenti asilo dall’Iraq al confine bielorusso con la Polonia e la Lituania sembra rievocare il copione del dramma di sei anni fa, ma questa crisi umanitaria è totalmente “handmade”.

Che il ponte aereo dalla Siria e dalla Turchia per importare profughi, essenzialmente curdi iracheni, da lanciare poi contro il filo spinato al confine polacco e lituano, sia opera del regime di Aleksandr Lukashenko lo dimostra anche la clamorosa chiusura dei consolati bielorussi ordinata da Baghdad, nel tentativo di fermare l’esodo e dietro le richieste di Bruxelles e di Washington. Ma basta guardare i video dal confine per accorgersi del marchio di fabbrica del regime di Lukashenko, di quella rudimentale brutalità che non si preoccupa né di usare degli sventurati come carne da macello, né di farsi incastrare dai video che gli stessi migranti postano per mostrare i militari bielorussi che li minacciano sparando in aria, o che li dirottano dai posti di blocco verso la foresta, costringendoli a forzare la frontiera polacca invece di attraversarla pacificamente.

Questa crisi artificiale è organizzata secondo il tipico schema di Lukashenko, che da 27 anni ormai ricorre alle provocazioni con scenari molto simili, tirando il sasso e nascondendo (nemmeno troppo) la mano, allo scopo di far infuriare uno dei suoi grandi vicini, ora l’Europa, ora la Russia. La “guerra ibrida” dei migranti è una di quelle provocazioni che, secondo il dittatore bielorusso, è una situazione “win-win”. Vilnius e Varsavia sono in prima linea europea nel combattere il regime di Lukashenko, aiutando l’opposizione e concedendo asilo ai dissidenti.

Se la Bielorussia riesce a invadere la Polonia e la Lituania da profughi, scatenando una crisi umanitaria, il voto di protesta di destra in quei Paesi potrebbe spingere i loro governi a rinunciare a combattere la dittatura di Minsk. Se Vilnius e soprattutto Varsavia bloccassero con durezza i tentativi dei richiedenti asilo di sfondare il confine sotto l’occhio vigile dei soldati bielorussi, potrebbero trovarsi ai ferri corti con Bruxelles e intensificare i contrasti già esistenti con l’Europa. Se l’Europa si spaventa del ricatto e decide di negoziare con Lukashenko (l’ipotesi meno probabile), Minsk potrebbe tornare ad avere una sponda alternativa a Mosca e riprendere respiro dopo la raffica di sanzioni Ue successive al dirottamento dell’aereo di Ryanair nel maggio scorso.

L’appoggio della Russia

Ma soprattutto la crisi artificiale al confine con l’Europa – e la Nato – viene creata a beneficio dell’interlocutore principale di Lukashenko, Vladimir Putin. I canali di propaganda televisiva russi, e lo stesso ministro degli Esteri del Cremlino Sergey Lavrov hanno già fatto loro la retorica di Minsk sugli “europei disumani” che “sparano a donne e bambini” alla frontiera polacca, ribaltando completamente l’abituale narrazione razzista sui “nullafacenti musulmani che invadono l’Europa”. E il dittatore bielorusso si è affrettato a telefonare al suo collega russo per denunciare un “pericolo di conflitto armato” ai confini con l’Europa.

Nonostante sporadici tentativi di giocare su due tavoli con l’Europa, tutto quello che fa Lukashenko è ormai rivolto a Mosca. La crisi del suo regime dopo le “elezioni” del 9 agosto 2020 e della repressione violenta della protesta in piazza, ha distrutto qualunque speranza di un negoziato con l’Occidente. Ma paradossalmente ha aumentato, invece di ridurre, la leva di Minsk sul Cremlino, come mostrato anche dal recente pacchetto di accordi di integrazione tra i due Paesi.

Come nota Maksim Samorukov su Carnegie Moscow, più Lukashenko vacilla, più il Cremlino riduce le sue pressioni per inglobare la Bielorussia. Nonostante Putin continui a non fidarsi del suo vicino, rimproverandogli – non del tutto a torto – di aver sabotato per vent’anni le ambizioni imperiali di Mosca, più il regime bielorusso corre il rischio di collassare, meno spazio di manovra ha Putin: l’alternativa a Lukashenko rischia sempre di più essere non un altro autocrate più abile e meno odioso, ma una rivoluzione democratica sul modello ucraino, con conseguente passaggio di Minsk nell’orbita europea e occidentale.

Il ricatto migratorio di Lukashenko

Un’opzione inaccettabile, nella visione “geopolitica” manichea di Putin. È a lui che sono indirizzate le dichiarazioni del ministero degli Esteri bielorusso sugli “armamenti pesanti ammassati dalla Polonia al confine”. Dopo che, al negoziato di pochi giorni fa, il Cremlino ha riconfermato lo sconto sul gas per Minsk, ma ha stretto i cordoni della borsa su altri dossier, Lukashenko vuole dimostrare a Putin di essere l’ultimo baluardo all’avanzata dell’Europa e dei suoi valori, in quello “scontro di civiltà” che il leader russo vede come inevitabile.

La prospettiva del “kartoffenfuhrer”, come viene chiamato dall’opposizione, è molto meno globale: il suo scopo è rimanere al potere in un Paese che gli si è ribellato. Chiedere a Putin un intervento militare per “proteggere i confini bielorussi dalla Nato” – e quindi permettere alla Russia la finora negata presenza militare diretta sul suolo bielorusso, in cambio di aiuti per la propria sopravvivenza sul trono: nella logica di Lukashenko potrebbe essere un premio che vale il rischio di uno scontro militare in Europa, e tanto più la vita e la sicurezza di qualche migliaio di migranti mediorientali.

Un’ennesima dimostrazione che l’Ue ha ai suoi confini non un semplice regime autoritario da condannare di tanto in tanto, ma un focolaio di problemi che la riguardano da vicino.

Foto di copertina di EPA/Leonid Scheglov/ HANDOUT

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