Il piano di pace per l’Ucraina: un testo coloniale in 28 punti

La cosa migliore che si può dire del piano di pace in 28 punti preparato dall’Inviato Speciale Usa, Steve Witkoff, e dal capo del fondo sovrano russo – nonché confidente di Vladimir Putin –, Kirill Dmitriev, è che si tratta di un documento in evoluzione, i cui termini non sono scolpiti nella pietra e pertanto soggetti a cambiamento. È anche per questo che ne sono circolate diverse versioni, in particolare con riguardo alla natura delle garanzie di sicurezza offerte dagli Stati Uniti. Al netto di questo caveat, il documento presenta i crismi di un’intesa coloniale fra due potenze che decidono le sorti di un paese sovrano e deliberano di beni che non controllano.

Se questo piano o qualcosa di simile venisse attuato (eventualità altamente improbabile), la Russia ne uscirebbe con una vittoria politica e strategica. Il presidente Usa Donald Trump rivendicherebbe di aver messo fine a un’altra guerra ottenendone vantaggi commerciali, seppure al prezzo di una colossale sconfitta strategica americana. L’Europa ne uscirebbe più insicura e dipendente e l’Ucraina mutilata e vulnerabile a una futura aggressione.

Sovranità limitata

L’accordo in 28 punti riconosce la sovranità dell’Ucraina ma fa poco per garantirla.

Sul piano territoriale, forzerebbe Kyiv a cedere non solo i territori occupati dai russi (cinque province, che verrebbero riconosciute come di fatto russe dagli Usa) ma anche quella parte del Donetsk ancora sotto controllo ucraino, dove vive oltre un milione di persone e che è strategicamente centrale per la difesa del territorio più interno. È un sacrificio territoriale, e umano che comprometterebbe la capacità difensiva ucraina nel medio periodo.

Sul piano politico, l’Ucraina sarebbe costretta a indire elezioni entro cento giorni dalla firma dell’accordo, sfruttando il fatto che Volodymyr Zelensky – rimasto presidente oltre la scadenza naturale in virtù della legge marziale in vigore dall’invasione russa del 2022 – è in difficoltà per le ricadute dello scandalo di corruzione che ha coinvolto due ministri e potrebbe portare alle dimissioni del capo di gabinetto Andriy Yermak. Forzare elezioni in tempi così stretti in un paese devastato da quasi quattro anni di bombardamenti indiscriminati significa creare instabilità e offrire a Mosca lo spazio per un’offensiva di disinformazione.

L’obbligo di garantire il russo e i diritti della chiesa ortodossa riflette un principio legittimo, ma è anche l’appiglio al quale Mosca si aggrapperà per giustificare pressioni, campagne diffamatorie e azioni ostili. Non va dimenticato che l’aggressione alla Georgia del 2008 fu motivata con il pretesto di un inesistente ‘genocidio’ dei separatisti sud-osseti.

Sul piano militare, le disposizioni sono solo lievemente meno sbilanciate. Kyiv dovrebbe inserire in Costituzione l’impegno a non aderire alla Nato, mentre l’Alleanza dovrebbe espungere l’adesione ucraina dalla propria agenda, nonostante le solenni promesse (pur vaghe nei tempi) del vertice del 2024.

Verrebbe anche escluso lo schieramento di truppe Nato sul territorio ucraino. Non è chiaro se questo si applichi anche alla forza europea di rassicurazione, che verrebbe schierata come coalizione di volenterosi e non sotto egida Nato; ma è indubbio che i russi insisteranno che non c’è differenza fra truppe Nato e di Paesi Nato.

L’Ucraina dovrebbe accettare un tetto di 600 mila soldati: meglio rispetto agli 80 mila richiesti dai russi nei colloqui di Istanbul bel 2022, ma pur sempre un terzo in meno delle forze armate di oggi. Nulla viene detto sulle forniture militari estere, ma il riferimento a un futuro negoziato volto a chiarire tutte le “ambiguità” tra Ucraina, Europa e Russia, nonché tra Nato e Russia (mediati dagli Stati Uniti, come se non fossero il paese leader dell’Alleanza), apre la strada a limitazioni indirette agli aiuti militari a Kyiv attraverso meccanismi di controllo degli armamenti.

Le garanzie di sicurezza americane, previste in una versione rivista come parzialmente assimilabili all’articolo 5 della Nato seppure limitate a dieci anni, restano il punto più incerto del piano. Pesano non solo le ambiguità del testo, ma anche l’inaffidabilità di un’America più orientata in senso nazionalista e unilaterale, nonché la mancanza di un investimento personale del presidente Trump. In assenza di garanzie concrete – anche sotto forma di trasferimenti militari all’Ucraina – gli impegni reciproci di non aggressione non sarebbero credibili.

Ricostruire l’Ucraina e reintegrare la Russia (coi soldi degli altri)

L’afflato colonialista del piano emerge con evidenza nel capitolo sulla ricostruzione. Il piano prevede di usare cento miliardi in titoli russi congelati per sostenere progetti di ricostruzione e sviluppo guidati dagli Stati Uniti, a cui peraltro andrebbe il 50% dei profitti. I restanti duecento miliardi in titoli russi confluirebbero in un fondo congiunto russo-americano per iniziative comuni. Così Washington guadagnerebbe dalla ricostruzione ucraina mobilitando risorse che non controlla, dal momento che la parte preponderante dei titoli (oltre duecento miliardi) si trova in Europa, in particolare in Belgio. A questo si aggiunge la pretesa che l’Ue contribuisca con altri cento miliardi di tasca sua, aggravando ulteriormente il divario tra chi decide e chi paga.

I russi, dal canto loro, otterrebbero il ritorno di almeno una parte dei titoli in patria, nel quadro di una relazione economica con gli Stati Uniti rilanciata anche dalla progressiva revoca di tutte le sanzioni. Come ciliegina sulla torta, tutte le parti (vale a dire Putin e i suoi sodali) beneficerebbero di un’amnistia generale (niente processi per crimini di guerra). Il reintegro nel G8 dovrebbe certificare la ripresa delle relazioni con la Russia che, nei calcoli (più probabilmente, illusioni) di alcuni, si potrebbe così ‘scollare’ dalla Cina

Dignità ucraina e… europea?

Le chance che il governo ucraino accetti questo accordo sono vicine allo zero, anche se Zelensky si trova di fronte alla scelta più difficile dal ritorno di Trump.. Le difficoltà militari di Kyiv non sono tali da renderla incline a una quasi capitolazione. Inoltre, la dipendenza diretta dagli Stati Uniti è inferiore rispetto all’era Biden, anche se la perdita dell’intelligence statunitense sarebbe per lei molto dannosa. Almeno per un certo periodo, l’Ucraina può resistere alle pressioni di Washington.

Un altro fattore a favore dell’Ucraina è il sostegno dei paesi europei, il cui ruolo è cresciuto da quando hanno iniziato ad acquistare armi Usa e a reindirizzarle verso l’Ucraina. La strada non è chiusa per un’ennesima iniziativa diplomatica europea per intervenire sul testo, in particolare sulle forniture militari, le dimensioni delle forze armate ucraine, l’uso dei fondi congelati (di cui l’Ue deve prendere il controllo, superando le resistenze dei belgi) e i tempi elettorali. Il problema, come sempre, è come gestire un presidente le cui preferenze sono così oscillanti.

Anche Trump insiste per una rapida conclusione del processo, è improbabile che Trump possa permettersi politicamente di imporre un piano tanto sbilanciato contro la volontà di Kyiv e degli alleati europei. Tuttavia, il rischio è che un eventuale rifiuto venga strumentalizzato per alimentare la narrativa secondo cui sarebbero ucraini ed europei a ostacolare la pace e non l’invasore russo, acuendo le fratture interne al fronte occidentale e alienando Trump da Kyiv. Per Mosca, un esito del genere non sarebbe negativo; anzi, è plausibile che sia il risultato a cui ha realisticamente puntato.

Questo è un motivo in più perché gli europei serrino le fila e oppongano a Trump non una resistenza mascherata di lusinghe imbarazzate e rituali adunate attorno al capo, ma la difesa esplicita della stabilità continentale e della sovranità ucraina. La dipendenza dell’Europa da Washington è reale, ma non tale da giustificare posture da colonie. Se l’Ucraina ha saputo resistere con dignità alle sferzate di Washington, può farlo anche l’Europa.

Coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

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