I confini politici tra gli stati vengono spesso presentati come naturali, fissi e necessari – come la manifestazione tangibile della diversità e separatezza tra entità geografiche, culturali e linguistiche tra loro ben distinte. Una prospettiva storica di lungo periodo consente invece di cogliere come l’idea stessa di confine si sia articolata in forme e modi molto diversi nel tempo e nello spazio. Perfino quelle che oggi percepiamo come barriere fisiche insuperabili determinate dall’orografia – come le montagne, i fiumi e i mari – sono state vissute, nei secoli, non solo e non sempre come confini, ma anche (anzi, talvolta soprattutto) come spazi di comunicazione, di scambio e di transizione.
Mare e montagna come confini nella storia
Sino all’affermazione del motore a vapore nell’Ottocento, le vie d’acqua sono state il veicolo più efficace per spostare persone e merci, garantendo una velocità di movimento in media di una volta e mezzo superiore al trasporto via terra. Non a caso, un grande impero dell’antichità come l’Impero romano si sviluppò e fiorì attorno a un enorme bacino navigabile come il mar Mediterraneo, all’epoca ribattezzato Mare nostrum o Mare internum. Ma nella storia umana, anche le montagne più arcigne non sono state solo una barriera e un confine tra stati e persone. Le comunità alpine dell’età moderna presentavano livelli di mobilità molto elevati, con massicce migrazioni stagionali degli uomini adulti verso i fondovalle nei periodi invernali. E per quasi tre secoli, il Libero stato delle Tre Leghe (l’odierno Canton Grigioni) prosperò a cavallo delle Alpi retiche – tra la Valtellina, l’Engadina e la valle del Reno – proprio grazie al controllo strategico dei passi di montagna, fondamentale snodo di comunicazione e di commercio.
Le modalità attraverso cui il territorio viene organizzato e demarcato non sono determinate a priori dalla geografia, bensì invece il prodotto mutevole di un’interpretazione e di una rielaborazione sociale. La storia del cosiddetto “confine orientale” italiano ne è un esempio paradigmatico. Come evidenziato anche dalle recenti linee guida per la didattica del Ministero dell’Istruzione, in un’ottica di lungo periodo, più che di “confine orientale” è preferibile parlare di “frontiera adriatica” per caratterizzare quell’area di passaggio, ma anche di ibridazioni e interconnessioni, che si estende dalla Valle dell’Isonzo e dal Golfo di Trieste lungo la sponda orientale del mare Adriatico fino alle Bocche di Cattaro.
La frontiera adriatica: l’evoluzione di un confine
A lungo, tra Otto e Novecento, storici e politici dibatterono su dove andasse collocato l’antico confine orientale dell’Italia romana, senza arrivare a un consenso univoco. Lo stesso presidente statunitense Woodrow Wilson, durante le trattative di pace al termine della Grande guerra, propose un’ipotetica linea di demarcazione risalente all’età antica per delimitare il nuovo confine tra Italia e Jugoslavia nella penisola istriana.
La ricerca otto-novecentesca di un antecedente romano del confine orientale non deve stupire. Per oltre mille anni, dall’invasione longobarda sino al Trattato di Campoformido del 1797, le regioni nordorientali della Penisola si articolarono secondo una geografia completamente diversa: la principale frattura fu allora non quella tra Est e Ovest, bensì quella tra le zone costiere (rimaste sotto il controllo bizantino prima, veneziano poi) e zone dell’entroterra (prima occupate dai Longobardi e quindi entrate nell’orbita di influenza carolingia e germanica), seguendo in ogni caso delle traiettorie non lineari, con un proliferare di enclavi, exclavi e particolarismi. Fu soltanto nell’Ottocento, parallelamente all’affermarsi dell’idea di stato nazione moderno centrato su principi di appartenenza nazionale variamente intesi, che emerse la concezione di confine orientale come linea di demarcazione netta (ma mai inequivocabilmente definita) dello spazio nazionale italiano.
Il confine orientale novecentesco assunse così, per diversi decenni, un elemento di forte rigidità, diventando una realtà drammaticamente concreta. Si manifestò dapprima nelle trincee della Grande guerra, per poi farsi espressione delle dicotomie politiche-culturali tipiche del “secolo breve”: quella fascismo-antifascismo nel primo dopoguerra, quella nazismo-comunismo nella fase finale della seconda guerra mondiale, quella tra mondo occidentale e blocco socialista dopo il 1945. Da ultimo, i confini del secondo dopoguerra segnarono profondamente il territorio dell’Italia nordorientale, spaccando comunità e innalzando muri, come nel caso di Gorizia e della sua gemella Nova Gorica, fondata ex novo dal regime titino subito oltre la nuova linea di confine.
Proprio l’esperienza Gorizia evidenzia come una lettura lineare e statica del concetto di confine finisca per oscurare la complessità delle interazioni umane. I primi anni dopo la pace di Parigi del 1947 videro certamente una rigida separazione tra il versante italiano e quello jugoslavo della cosiddetta “cortina di ferro”, che arrivò a dividere in due persino i cimiteri, come a Merna/Miren. Eppure sin dagli anni Cinquanta, in corrispondenza della mutata collocazione internazionale della Jugoslavia dopo la rottura tra Stalin e Tito, si aprirono spazi di permeabilità lungo il confine, consentendo scambi e contaminazioni ben prima dell’allargamento del progetto di integrazione europea a Slovenia e Croazia. Una serie di accordi sottoscritti tra il governo italiano e quello jugoslavo nel 1955, volti a incentivare il commercio a livello locale, funsero da volano non solo per la circolazione di merci (pasta, olio, dischi, riviste e vestiti dall’Italia alla Jugoslavia, carne e benzina nella direzione opposta), ma anche – sia pur con tutte le difficoltà e le resistenze del caso –di idee e di persone.
La storia della frontiera adriatica è quindi un caso emblematico di come i confini, lungi dall’essere una realtà naturale, siano anzitutto un costrutto umano: possono evolversi e modificarsi nel tempo, farsi più rigidi e addirittura reificarsi sotto forma di muri, fili spinati e trincee, ma anche divenire fluidi e trasformarsi in luogo d’incontro, o persino dissolversi e scomparire.