L’alleanza tra Naftali Bennet e Yair Lapid è durata appena un anno. A seguito delle elezioni del 23 marzo 2021, i leader dei partiti Yamina e Yesh Atid avevano tentato di creare una maggioranza solida tramite un governo di coalizione. Tuttavia, lo scorso giugno la Knesset, il Parlamento unicamerale di Israele, è stata sciolta e i cittadini israeliani sono stati chiamati alle urne per la quinta volta dal 2019.
Le elezioni si terranno il primo novembre e, nonostante alcune novità degne di nota, il risultato potrebbe essere ancora una volta una battaglia tra chi si oppone a un ritorno al potere dell’ultra-conservatore Benjamin Netanyahu e chi invece sostiene il Primo ministro più longevo della storia di Israele.
Knesset: funzioni e legge elettorale
La Knesset, che detiene il potere legislativo e vota la fiducia ai governi, è composta da 120 seggi. L’elezione dei deputati avviene tramite sistema proporzionale a liste chiuse, in cui gli elettori esprimono la preferenza per il partito e non per il candidato. Dal 2014, la soglia di sbarramento è stata alzata al 3,25%: una volta esclusi i partiti con un numero di preferenze inferiori, i seggi vengono distribuiti secondo il metodo d’Hondt, denominato Bader-Ofer dalle istituzioni israeliane.
Secondo questo metodo, il totale dei voti considerati validi viene diviso per 120 – il numero di seggi disponibili – ottenendo così un indice. Le preferenze di ogni partito vengono divise per l’indice, stabilendo così il numero di deputati di ciascuna formazione politica. Nel caso non vengano ripartiti tutti i seggi, i voti in eccesso vengono assegnati dividendo il numero totale di voti ricevuti da una lista per il numero di seggi ottenuto dalla stessa più uno. Prima del voto i partiti possono decidere di concludere accordi per ridistribuire tra di loro i voti in eccesso. In questo caso, ai fini dell’assegnazione dei seggi in più, vengono considerati come una lista unica. L’intero Paese viene considerato un unico collegio.
Le alleanze e il ritiro di Bennet
I partiti che hanno presentato la propria candidatura alle elezioni del primo novembre sono quaranta. Rispetto allo scorso anno, l’Israel Democracy Institute sottolinea la presenza di alcune differenze sostanziali. Innanzitutto, Gideon Sa’ar e Benny Gantz (quest’ultimo già ministro della Difesa), rispettivamente a capo dei partiti New Hope (centro-destra) e Blu& Bianco (liberale), hanno unito le forze creando il gruppo HaMakhane HaMamlakhti (“Partito di unità nazionale”). Naftali Bennet, uno dei due premier uscenti (l’altro è Yair Lapid), si è invece ritirato dalla corsa elettorale.
Tra i partiti in corsa, oltre al nuovo gruppo di Sa’ar e Gantz, figurano Likud, partito di destra guidato da Netanyahu, e Yesh Atid (“C’è un futuro”), guidato da Lapid, che si autodefinisce un partito di centro.
Non mancano vari partiti di stampo religioso, che potrebbero appoggiare il leader del Likud Netanyahu, insieme ai gruppi minori di estrema destra. Tra questi spicca Otzma Yehudit (Potere ebraico), guidato da Itamar Ben-Gvir, che secondo i sondaggi potrebbe ottenere ben 13 seggi in Parlamento. Il leader di questo partito è un personaggio controverso: apertamente razzista e anti-arabo, si è già distinto per aver sostenuto gruppi terroristici israeliani, venendo incriminato oltre 50 volte per incitamento all’odio. Egli, inoltre, risulta tra i principali promotori della “Marcia delle bandiere”, evento annuale che celebra l’occupazione israeliana di Gerusalemme est.
Per quanto riguarda l’ala sinistra della politica israeliana, parteciperanno gli storici partiti social-democratici Meretz – che propone la soluzione a due Stati per risolvere la questione palestinese – e HaAvoda (generalmente noto come partito laburista), caratterizzato da un’apertura al dialogo e alle trattative pacifiche con i palestinesi. Tuttavia, secondo i sondaggi, entrambi i partiti di centro-sinistra sono ben staccati dalle compagini di destra riunite intorno a Netanyahu, così come dal partito centrista Yesh Atid.
Le posizioni dei partiti minori
Tra le forze minori, invece, è da segnalare il nuovo partito misto arabo-ebraico, Kol Ezracheya (“Tutti i cittadini”) – che propone il superamento dell’etnocrazia – il quale, probabilmente, competerà per superare la soglia di sbarramento con la Lista araba unita (nota con l’acronimo ebraico Ra’am), formazione arabo-israeliana guidata da Mansour Abbas.
Va sottolineato che la comunità arabo-israeliana boicotterà in massa le elezioni in segno di protesta contro la classe politica israeliana, dal momento che il governo uscente si era presentato al Paese e al mondo come più moderato – soprattutto nella gestione della questione palestinese – rispetto ai precedenti governi guidati da Likud. Aspettative deluse con la violenta gestione del Ramadan durante lo scorso aprile e le operazioni militari avviate prima a danno della popolazione della Striscia di Gaza (agosto 2022) e più recentemente in Cisgiordania, soprattutto a Nablus e dintorni. Queste politiche repressive hanno reso il 2022 l’anno con più vittime tra i palestinesi dal 2015: l’attacco contro Gaza di agosto ha causato 49 morti, mentre in Cisgiordania il numero di uccisioni ha già superato il centinaio.
Un’altra comunità che potrebbe risultare determinante nelle elezioni, come l’estrema destra, è quella degli haredim, gli ebrei ultraortodossi, i cui partiti di riferimento avevano appoggiato il Likud nella passata legislatura. Tuttavia, i rappresentanti di Giudaismo Unito della Torah hanno dichiarato che questo sostegno non sarà incondizionato. Se uno o più di questi partiti decidessero di ritirare il sostegno a Netanyahu o fossero loro negati alcuni speciali privilegi (ad esempio, l’esenzione dal servizio militare quest’ultimo potrebbe non avere i numeri per formare un governo di coalizione.
La fragilità dei governi di Israele
I governi di Israele raramente concludono una legislatura. Il sistema elettorale proporzionale e la maggioranza semplice dei deputati richiesta per la formazione dei governi, uniti alla frammentarietà dello scenario politico del Paese, hanno spesso dato vita a fragili coalizioni in disaccordo sui punti essenziali delle agende di governo.
Nonostante il Likud sia dato per favorito dalla maggioranza degli analisti, il partito di Netanyahu non dovrebbe riuscire a raggiungere i 61 seggi necessari a formare un governo da solo. Il partito che riuscirà ad avere il maggior numero di voti, quindi, dovrà allearsi con altre formazioni politiche, comprese quelle minoritarie che si fanno portavoce di comunità marginali, come gli ortodossi o gli arabi con cittadinanza israeliana.
Per l’ultimo esecutivo, le prime avvisaglie del crollo imminente sono giunte ad aprile per motivi religiosi. La deputata Idit Silman (della coalizione di destra Yamina), infatti, ad aprile aveva annunciato l’intenzione di abbandonare il governo, in polemica con il ministro della Sanità di Meretz, Nitzan Horowitz. Quest’ultimo aveva deciso di concedere alle famiglie in visita ai ricoverati negli ospedali israeliani di portarsi da casa pane lievitato, in contravvenzione ai precetti religiosi di Pesach che concedono, durante la Pasqua ebraica, di mangiare solo pane azzimo. Poco più di una settimana dopo, il partito Ra’am aveva deciso di congelare la propria partecipazione al governo in segno di protesta per la violenta repressione della comunità palestinese durante gli scontri a Gerusalemme.
Il mese seguente, invece, fu la deputata socialdemocratica Ghaida Rinawie Zoabi a far andare il governo in minoranza, sempre a causa delle violenze perpetrate dai militari israeliani durante il mese di Ramadan.
La spallata finale è giunta poi dall’ex premier Netanyahu, abile nel convincere i propri alleati alla Knesset a votare contro una nuova estensione quinquennale delle regole che pongono l’operato dei coloni israeliani in Cisgiordania sotto la giurisdizione del diritto civile israeliano e non della legge marziale, che controlla la vita degli arabi nei territori occupati. Di solito l’estensione è automatica e non comporta alcun dibattito, ma Netanyahu e i suoi alleati hanno espresso un voto contrario nonostante la loro posizione favorevole ai coloni. Una mossa astuta, dato che Bibi sapeva che i quattro esponenti arabi del governo di coalizione non avrebbero mai potuto votare in favore dei diritti speciali per i coloni. Il provvedimento è stato bocciato, portandosi dietro Bennett, Lapid e la loro maggioranza.
L’alleanza tra Naftali Bennet e Yair Lapid è quindi un esempio della storica fragilità dei governi di Israele, in cui le maggioranze sono risicate e in disaccordo, con opposizioni capaci di voti strategici in grado di far crollare gli esecutivi. Resta da vedere se anche il prossimo si inserirà in questa scia.
Articolo a cura di Enrico la Forgia, caporedattore MENA, e Viola Pacini, redattrice MENA de Lo Spiegone